REGIONE MARCHE

Disegnato da Gilberto Quattrocchio-Ascoli Piceno

Quattrocchio - Regione Marche (arma antica) - Nobili Patrizi di Ascoli - Arma d'argento al monte di tre cime verdi sormontato da una croce gigliata d'oro cantonata da quattro occhi umani al naturale. Motto "Noli Me Tangere". Nota: la croce gigliata è un'ambita effige concessa soltanto a chi aveva partecipato alla Prima Crociata.

ANCONA

La Prima Chiesa d'Italia se non vogliamo dire dell'Europa fu' S.Stefano.

Le prime notizie sulla vita cristiana di Ancona si riferiscono alla memoria di santo Stefano della quale parla sant'Agostino in uno dei suoi scritti, mentre da papa Gregorio Magno si ha la notizia che anche la prima cattedrale di Ancona era dedicata a questo santo. (Wikipedia)

ISTORIA D' ANCONA CAPITALE DELLA MARCA ANCONITANA
DELL' ABBATE LEONI ANCONITANO - VOLUME II.
DEDICATO A SUA ECCELLENZA ANTONIO PASSIONEI CAMERATA DE MAZZOLENI
CONTE, SENATORE, CAVALIERE, COMMENDATORE

"La Chiesa di Santo Stefano fu edificata in un'area di cui tre lati su vie pubbliche e il quarto su terreno degli eredi di Johis Quatuor Oculi ....."

Arduino intanto Re d'Italia, disperato passò a farsi Monaco, ove gravemente infermatosi comprese quanto sieno caduchi i Regni terreni; e sperando con quella tonaca da Frate di comparire avanti il tribunale supremo diverso da quello, ch'era stato in vita, rasasi ancor la barba,( che tutt'i secolari solevano allora portare )cessò di vivere l'anno 1015 , come ne fanno piena fede il Padre Mabillone, Arnolfo Storico Milanese, ed anco viene registrata la sua morte nel Necrologio di Dijon XIX. Kalendas Januari: e così rimase l'Italia obbligata alla morte, per averla libera ta da questo impaccio.
L'Augusto Arigo II. cessò di vivere l'anno 1024., e fu Re d'Italia Corrado II. Re di Germania , quale venne coronato Imperatore unitamente a Gisela sua moglie l'anno 1027. Sono indescrivibili i laghi di sangue fatti scorrere per l'Italia dai barbari indisciplinati, e bestiali Tedeschi . Fu questo veramente secolo di ferro, di cui non si può leggere la Storia senz'amarezza. I Monarchi divisi fra di loro aveano troppo bisogno delle truppe; e queste prive della necessaria disciplina la facevano da Monarchi, ed i veri Monarchi, o per mancanza di politica, o per loro naturale crudezza, lasciavano alle truppe libero il campo alla soverchieria, e crudeltà. L' anno 1039. fu l'ultimo della vita di Corrado: ed il di lui figlio Arrigo III. fu. Re di Germania, e d'Italia, quale fu incoronato Imperatore de' Romani l'anno 1046. VIII. Fra tutte queste variazioni, e guerre Ancona si disimpegnava alla meglio, non senza però suo gravissimo incomodo e detrimento. Sempre per altro religiosissima at tendeva ogni dì più a coltivare, ed accrescere quella Religione, che per ispeziale favore del sommo Iddio, in fra tutta l'Italia, fu la prima ad essere illustrata dai splendori del Vangelo. Appunto nelle vicinanze della prima Chiesa d' Italia, se non vogliam dire dell'Europa , cioè S. Stefano, fu edificato dalla pietà degli Anconitani il Monastero di S. Giovanni Battista de' PP. Benedittini, nella piana degli Orti (2). Abbiamo su tale oggetto una pergamena d'indicibi le valore, perchè d'una antichità speciale, trascritta dall' egregio Antiquario Signor Camillo Albertini. Rilevasi da questa, la ricchezza di quell'insigne Monastero non solo, ma quel che più interessa c' instruisce, che in quest'epoca il Vescovato esisteva fuori di città nel Colle S.Stefano. Mol te altre erudite notizie si hanno da questo prezioso monu mento, che a comune istruzione lo riporto ad litteram. (Dalla famosa Libraria dei PP. Rocchettini d'Ancona libro 2., lettera B. fol. 1.). In Nomine Domini Jhüi anni ab incarnatione Domini nostri Jhú X, MILI temporibus Domini Leonis Summi Pontificis, et univers. P. P. in Appostolica Sacra Beati Petri Appostoli sede anno eius quatuor, si quidem imperante Domino Henrico Impe ratore anni Imperij eius quinto, et die nono decimo mensis Martij inductione 4. Civitatis Ancona. Dominis venerabilibus, Sanctis simisque Successoribus nostris Episcopis, seu Xpicot. óibus, et quidem metuere, ac venerari penitus noscunt. Ego Grimaldus S. Anconitane Ecclesie presul una cum cuncto Clero invenimus Ecclesiam qua sita est paolo ab Episcopio (3) nostro edificata in bona Sancti Joañis Battistae, et ibidem Cenobium confirmamus in perpetuum, et fundum ubi edificata est prefata Ecclesia peneclaria nuncupata, et omnia pertinentia de ipsa prenominata (1) Pinaoro. - (2) Questo famoso Monastero fu demolito dai Ministri del Papa, dopo, che rubarono Ancona l'an. 1 532., per fabbricare colle macerie ( ridete) la Fortezza maggiore. L. Ferretti. Non erasi ancora scoperta la cava del Monte d'Ancona. (3) Dunque l'Episcopio era fuori di Città, mentre il Monastero era dove a' dì nostri vedeasi il Santo degli Orti, cioè quella Chiesina fuori di Porta-Calamo, che ora è casa del Signor Devoto. Ecclesia ibidem confirmamus praefato cenobio quidem similit. madiorum xl. etc. seæ lateribusque predicta res de ipsa Ecclesia de tribus lateribus sunt vie publice, et a quatuor latere terra, et Canneto Heredibus. Johis Quatuor Oculi , et Terra, et Vinea de Stephano Archidiacono, Heredibus Adelberto rabbs. usque in via publica. Dominus Illustrate ibid. confirmamus in predicto fundo: Terra, et Vinea cum Olive et fice, seu cum quale ius, pomis, vel Arboribus, et cum omnibus infra se habentibus corentia de sup. septare ab uno latere. Sancti Cosme et in secundo la via publica, a tertio latere Terra cumpastimatione de predicto Stephano Archidiacono, et a quarto latere alia via -- Domino concedente ibidem confirmamus in predicto fundo Peneclaria, et in fundo fonte alchara. Seu in fundo costi; seu in fundo Monte Conox (Conero) , qui Conocla vocatur. Seu et in fundo boccoliam, q. starvo vocat. Seu et in fundo racclici. Seu et in fundo catari. Et in fundo cupiliolo.. Et in fundo Supiliano cum tribus portioni bus de Ecclesia Sancti Liberij (1) seu cum Dote et pertinentia sua. Et in fundo. Mutiniano cum Ecclesia S. Michaelis. Et in fundo Urbano. Seu et in fundo foriniano, et Cumano. Seu ibi dem confirmamus. Ecclesiam Sancti Andrea Appostoli, que est edificata: in fundo Cretine cum Cellis suis et cum pentinentiis suis et omnia res prenominato fundo, et fundo. Auntiano. Seu et in fundo fabice, et in fundo tuetiano et fundo larctano, cum Ec clesia S. Petri,, et Sancte Marting et in fundo Muliano. Seu et in fundo quatregia. Seu in fundo Suriano. Seu et in fundo ra mianello. Seu et in fundo plano. Esino. Seu in fundo Canapine et in fundo Veglenano . Seu et in fundo brevie . Seu et in fun do faltonia cum Ecclesia S. Patriniani. Seu in fundo Petrati, et in fundo Sculiano. Seu in fundo Monte terenziana et in fundo Monte Corusco cum Ecclesia S. Apolinaris. Seu in fundo Monte Calvo . Seu in fundo Truviniano . Seu in fundo pesen tiano. Seu in fundo Casanounla. Seu in fundo Pitriolo.

OSIMO

Osimo, catasto gregoriano, 1818. Come è fatto lo spoglio. Lo spoglio contiene i nomi e cognomi dei possidenti di case e terreni a Osimo, nel 1818. Lo spoglio contiene solo le proprietà che riportano nomi propri di persona. Si ignorano tutte le altre: ad esempio Comune, Parrocchia, etc. Lo spoglio è stato condotto sul Brogliardo della mappa di Osimo. Comprende tutto il centro urbano. Informazioni sulla mappa Produttore Stato Ecclesiastico, Provincia della Marca, Delegazione di Ancona Data 1818 (16 apr 1818 - 16 giu 1818)
212.1
Quattrocchi Gioacchino qm Angelo - Porzione di Casa al pian terreno disabitata.

372
Quattrocchi Gioacchino qm Angelo - Casa di propria abitazione con bottega di proprio uso.

 

MONTEFANO

LO SPAZIO DEL SACRO.Chiese barocche tra ‘600 e ‘700 nella provincia di Macerata di Fabio Mariano

Chiesa di S. Donato. Dalle Riformanze relative agli anni 1570-73 risulta che a quella data Comune di Montefano risolse di quanto prima recominciare a fabbricare e compire subito la fabbrica della trecentesca chiesa di S. Donato, affidando il compito di seguirne le vicende ai deputati Battista Carradori, Pomponio Marcelli e Camillo Quattrocchi. Della necessità di ricostruire la chiesa si accenna nella Visita pastorale del simoniaco vescovo osimano Bernardino De Cuppis (eletto nel 1551, inquisito da s. Pio V per appropriazione e vendita di beni ecclesiastici e deposto nel 1574), che la trovò infatti quasi completamente diruta. Interrogati i Priori, il vescovo apprese che già da 12 anni il Comune aveva espresso l’intenzione di riedificarla, ampliandone anche le dimensioni. Successivamente, il Visitatore Apostolico mons. Salvatore Pacini ravvisò la medesima urgenza ed intimò al Comune di provvedere entro un anno, poi prorogato a due. I lavori procedettero speditamente: la nuova chiesa misurava 53 piedi (m. 17,50) di lunghezza e 32 piedi (m. 10,55) di larghezza. Nel 1587 vi fu eretta la Collegiata, cui furono trasferiti i beni del S. Benedetto fuori le mura e delle due chiese parrocchiali di S. Maria e S. Antonio dopo la loro separazione. Nel Settecento la chiesa si dimostrò di nuovo insufficiente quanto a dimensioni, oltre ad essere stata gravemente danneggiata sin dalle fondamenta da un terremoto il 14 gennaio 1703, che ne rese necessaria la demolizione per ordine del vescovo di Osimo Pompeo Compagnoni: la nuova ricostruzione ebbe inizio nel 1762 per concludersi nel 1768. L’edificio fu ricostruito in stile barocco con facciata in laterizio a due ordini ed impianto a navata unica. Allo stato dell’immediata post-ricostruzione era dotata di cinque altari, il maggiore e quattro laterali.....

 

Cum sit … Appunti di ricerca per la ricostruzione di una possibile storia delle prime famiglie Basilici nelle Marche di Paolo Basilici edizione Recanati, 2011

All’inizio dell’anno 1677 Girolamo Basilici prende in subappalto da Pietro Antonio Quattrocchi la locale “Gabella”.(139). (nota 139) -Non avevo mai parlato fin qui di esponenti della famiglia Quattrochi. Questa era una famiglia di antico impianto a Montefano, più o meno quanto i Basilici, e più volte il nome Quatroculos quattroculi o addirittura 4oculo si lega ai nostri protagonisti. Doveva essere anche questa una famiglia di ceto agiato.

MONTEFANO - San Filippo Benizi - Fr. Ubaldo Forconi - Piccolo centro in Provincia di Macerata e Diocesi di Osimo, ad economia di carattere agricolo, patria del Papa Marcello II (Cervini) che regnò pochi mesi. Il Convento dei Servi di Maria in questa cittadina deve la sua origine facendo riferimento ad un altro Convento della vicina località di Ginestreto. Al 1654 si fa cenno di un'altro Convento servita in Montefano ma che non sembra sia quello che è oggetto del nostro studio.
Non molto lontano da Montefano si trova il sopradetto luogo di Ginestreto, ed ivi, in località fuori porta detta « la Porticella » esisteva un'antica Chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria nella quale fungeva da Cappellano un Sacerdote dei Servi di Maria, certo Fra Giulio Guardini da Mantova, appartenente alla Provincia Mantovana. Nel 1558 il Frate venne richiamato nel suo Convento nella detta Provincia e allora la comunità (il popolo) di Monte Fano decise di concedere l'uso e l'assistenza della Chiesa di Ginestreto ai Frati Servi di Maria a condizione che vi risiedessero in permanenza almeno due Sacerdoti dell'Ordine ed un Fratello Converso e che, ogni due anni, un Servita si prendesse l'impegno di predicare la Quaresima ai fedeli montefanesi. I Frati, col consenso del Vescovo di Osimo Cardinale Gallo, accettarono e vi coltivarono in modo encomiabile, oltre l'assistenza religiosa in genere, anche le loro devozioni particolari e, in modo più evidente, alla Vergine dei dolori, anzi vi eressero ben tre nuove Confraternite e cioè: quella dell'abito dei sette dolori della Madonna, quella della SS. Trinità e quella di San Rocco. Vi costruirono anche, con l'aiuto dei paesani, il loro piccolo Convento sufficiente per la dimora di diversi Frati. Ecco quanto possiamo ricavare da una relazione del 1650 di questo Convento di Ginestreto, da alcuni storici servitani ignorato, perché, probabilmente, facente parte della vita del Convento di Montefano al quale servì di fondamento e motivo d'essere: « Il Monasterio della Madonna di Ginestreto de' Servi situato fuori della Terra di Montefano Diocese d'Osimo, in strada publica, lontano un quarto di miglio; fu fondato et eretto l'anno 1558, col consenso et autorità dell'illustre comunità, con gl'assegnamenti, obblighi e patti che siegue; cioè fu pre­fisso il numero di due frati Sacerdoti et un servente, e che ogni due anni la Religione dovesse mandare un predicatore. Ha la Chiesa sotto il titolo et invocatione della Madonna di Ginestreto, e di struttura mediocre con un cortiletto, sagristia, cantina, legnara et un'altra stanza a pian terreno, di sopra 4 camere, et il granare. Di presente vi abbitano di famiglia, cioè Sacerdote il P.re Fra Gio. Paolo Orlandi da Bologna Priore, Servente Fra Vincenzo da Forlì de Mattei ». Dalla stessa fonte sappiamo che possedeva qualche piccolo appezzamento di terra coltivabile, vigne ed albereti e una casetta, mentre era onerato da fitti e censi da pagare, Messe da celebrare, servizi da prestare come ospitalità ecc. Ma giunse anche per loro il 1652, quando, come effetto della Bolla Instaurandae d'Innocenzo X per la soppressione dei piccoli Conventi, furono costretti ad abbandonare quel Convento per quanto il Paese s'impegnasse a mantenere quattro Sacerdoti e due Fratelli, quanti se ne richiedevano per la sussistenza del Monastero, ma invano. Con i Servi di Maria dovettero andarsene da Ginestreto, per lo stesso motivo, i Padri Terziari di San Francesco che ufficiavano la Chiesa di S. Maria del Soccorso. Allora, con il reddito dei due Conventi, la Comunità paesana volle costruire un nuovo unico Monastero e questa volta non per i Frati ma per le Monache di San Bernardo, contribuendo anche con proprie spese. Queste Monache però non vennero mai. Il nuovo Monastero sorgeva in Montefano e nel 1673 vennero i Servi di Maria. Per avere una più chiara esposizione del come venne ai Servi di Maria il secondo Convento di Montefano, riportiamo la supplica del p. Generale dell'Ordine al Santo Padre: « Beatissimo Padre. Il Generale dell'Ordine de' Servi di Maria V., devotissimo oratore della S. Vostra, humilmente li espone come dalla Sa. Me. di Paolo Quinto fu concesso alla Comunità di Montefano Diocesi di Osimo poter applicare l'entrate della medesima comunità nello spatio di 10 anni avanzate et ascendenti a scudi 5000 in circa per la fabrica d'un Monastero di Monache dell'Ordine di S. Bernardo da erigersi in detta terra e di assegnare al medesimo Monastero una possessione spettante a detta comunità di annua rendita di scudi 200, ordinando però che la dote di ciasched'una Monacha sino al n. di 12 da introdursi in detto Monastero non fosse meno di scudi 250, e si dovesse rinvestire in beni stabili, come più ampiamente si contiene nella Bolla spedita nell'anno 1614 in esecuzione della quale si cominciò detta fabrica, fu assegnata la detta possessione e con l'entrata di essa si è andata continuamente proseguendo. Dell'anno 1653 essendo stati soppressi in detta terra di Montefano, in vigore della Bolla Instaurandae dalla Sa.Me. d'Innocenzo X, due Conventini, uno del 3° Ordine di San Francesco, l'altro di detta Religione de' Servi, la S. Congre­gazione sopra lodata de' Religiosi con ordine di Sua Santità applicò al detto Monastero da erigersi tutte l'entrate e beni de' medesimi Conventi soppressi, con obligo però di sodisfare a tutti li spesi conforme al Decreto sotto lì 27 Settembre 1653 in vigore del quale fu fatta l'attuale assegnazione, come per instrumento rogato lì 16 Novembre detto anno. Essendo la fabrica di detto Monastero ridotta a qualche perfetione, desiderando la comunità vederne effettuata la fondatione, ottenne sotto lì 24 Marzo dell'anno 1667 Decreto dalla S. Congregazione de' Vescovi e Regolari, nel quale si dà facoltà al Signor Cardinale Bichi, Vescovo di Osimo, di procedere all'attuai fondatione di detto Monastero, con l'assicuramento delle rendite assegnate, et il rinvestimento delle doti. Ma essendosi fatte molte diligenze dal Sig. Card. Bichi per introdurre dette Monache per lo spatio di molti anni, e non essendosi mai potuto effettuare cosa alcuna, anzi conoscendosi impossibile per molte circostanze note al medesimo Signor Card. Vescovo, e specialmente perché non si trovano zitelle in tal luogo, che sono habili o che vogliono sottoporsi alla vita monastica, e che possino contribuire la detta dote di scudi 250, et all'incontro ritrovandosi la detta comunità in estrema necessità di havere maggior numero de' Sacerdoti, e possibilmente Confessori per la grandissima penuria de' quali sono astretti molte volte andare a confessarsi fuor della terra in altri luoghi molto distanti con grandissimo loro incomodo e danno dell'anime. Perciò considerando la predetta Comunità esser di molto maggior utile del luogo, dove l'impossibilità suddetta in vece delle Monache avere un Convento de' Religiosi che possino supplire alla celebratione delle Messe, assistere alle confessioni, esercitare il popolo nelle devotioni, e con opere pie assisterlo e maggiormente confermarlo nella pietà cristiana, ha risoluto premessi molti trat­tati in pubblico Consiglio di concedere per quanto s'aspetta ad essa Comunità la suddetta Fabrica, possessione, beni e qualsivoglia altre entrate in qualsivoglia modo spettante, et assegnate e lasciate con qual­siasi conditione per l'erettione di detto Monastero di Monache, in beneficio di detta Religione de' Servi di M.V. ad effetto di erigere in vece di detto Monastero di Monache un Convento per 12 Religiosi con diverse proprie obligationi, e presi resultanti in evidente utilità di detto popolo e specialmente: che detti Padri debano mantenere in perpetuo un Maestro di Scuola, Predicatore per l'Avvento e Quaresima, et organista, che soddisfaccino a tutti l'obblighi di detti Conventi soppressi, e con altre condizioni più diffusamente appare dal Decreto fatto lì 21 Marzo prossimo passato et il medesimo Signor Cardin. Bichi Vescovo constandoli l'impos­sibilità di redurre a perfetione la fondatione di detto Monastero di Monache e l'urgente bisogno di Sacerdoti e Religiosi, massime per le confessioni, doppo molte et esatte informationi, e doppo una matura riflessione, ha confirmato il detto Decreto della Comunità con dar l'assenso alla detta fondatione del Convento de' Padri de' Servi in vece del Monastero con obligo però di Mantenere perpetuamente in esso 12 Religiosi e fra questi almeno 7 Sacerdoti, de' quali 4 siano Confessori come dal Rescritto fatto lì 27 Marzo prossimo passato. Pertanto il detto P.re Generale devotissimamente conoscendo per la validità di tutto quello si é fatto, esser necessaria l'approvatione e confermatione della S. Sede Apostolica, supplica humilmente la S. Vostra, attese l'istanze et il consenso espresso di detta Comunità, l'ap­provazione di detto Sig. Card. Vescovo, l'impossibilità di fondare il Monastero di Monache, la necessità che tiene quel luogo di Sacerdoti e Confessori e l'utile evidente di detta Comunità, mentre obligandosi i Padri a li suddetti pesi convenuti si viene a sgravare di un'annua spesa di 112 scudi in circa, degnarsi concedere alla sua Reli­gione la fabrica, possessione, beni, et altre qualsivoglia entrate in qualunque modo spettanti et assegnate e lasciate con qualsivoglia conditione al detto Monastero di Monache, tanto dalla detta Comunità di Montefano, quanto da qualsivoglia altra persona, come anco tutte e qualsivoglia beni et entrate spettanti a detti Conventi soppressi et applicati dalla S.M. d'Innocenzo X alla fondatione di detto Monastero di Monache per dote e sostentamento d'un Convento di Frati del detto Ordine da fondarsi nella medesima terra e nel medesimo Monastero già fabricato in luogo di dette Monache, con tutti gl'obblighi, patti e conditioni espresse in detto Decreto della Comunità et in detto Rescritto del Sig. Cardin. Vescovo. Che il tutto etc... ». Il Vescovo di Osimo Mons. Fanesi era contrario alla venuta dei Servi in Montefano nel nuovo Monastero già pronto; vi erano alcune condizioni poste dagli offerenti che i Servi accettarono; a superare le difficoltà create dal Vescovo, intervenne la Congregazione ed un Decreto del Papa; così i nostri Religiosi poterono prendere possesso dei locali nell'anno suddetto. Queste furono le condizioni: i Servi di Maria avrebbero dovuto mantenere in perpetuo il Maestro della Scuola, provvedere alla predicazione dell'Avvento e della Quaresima, concerne pure all'Organista; la scuola doveva tenersi nella sala grande della stessa Comunità — i Padri dovevano impegnarsi a soddisfare gli obblighi annuali tanto nella Chiesa della Madonna di Ginestreto come in quella del Soccorso e nelle feste principali assicurare un Confessore sia nell'una che nell'altra — i Frati assumevano l'onere di ottenere dalla Santa Sede l'autorizzazione ad entrare in possesso di tutti gli averi, terreni con i loro redditi, oggetti e denari offerti per la costruzione e il sostentamento del Monastero destinato alle Monache, già donato dalla comunità o che in seguito avrebbe potuto offrirsi dalla stessa comunità esonerandola, insieme ai singoli Consiglieri, da ogni possibile futura contestazione — gli stessi Frati dovevano assumersi l'onere finanziario delle Bolle e Decreti indispensabili per entrare in possesso del Monastero già destinato alle Suore — obbligo per i Servi d'intervenire alle Processioni pubbliche — nessuna richiesta o rivendicazione presso la comunità in avvenire, salvo le comuni elemosine — obbligo per i Frati di celebrare « un offitio de' morti, gratis » nella loro Chiesa, per l'anima di ogni cittadino consigliere della comunità, alla sua morte — quando qualche figlio, legittimo o naturale, di cittadini di questa comunità desiderava essere ammesso a farsi Frate nei Servi di Maria, questi dovranno, se esisteranno le debite condizioni e requisiti richiesti, accettarlo a loro spese ed almeno tre o quattro affiliarli al Convento di Montefano — obbligo per i Frati Servi di Maria, con ciò che possiede sul momento il Monastero e le altre sue entrate, a costruire la Chiesa e, qualora dette entrate non fossero sufficienti, dovrà provvedere l'Ordine religioso — per la compilazione del contratto tra i Servi di Maria e la detta Compagnia di Montefano per l'osservanza dei diversi articoli e concessioni del detto Monastero, dovranno intervenire alla stipula di detto contratto, per la Compagnia i Confratelli, i Priori e Sindico pro tempore con ampia facoltà, e per l'Ordine i Delegati del Rev.mo P. Generale con il più ampio mandato di procura. Il Sommo Pontefice era Clemente X e la Bolla porta la data del 10 Gennaio 1673. L'anno seguente, il 29 Marzo 1674, fu posta la prima pietra della nuova Chiesa che fu terminata dopo 29 anni e benedetta il 7 Ottobre 1703; dedicata a San Filippo Benizi. Il Convento fu dovuto abbandonare nel 1880 in seguito alle ultime leggi eversive del governo italiano, ma fu ripreso nel 1897. I Servi di Maria, secondo la bella tradizione ormai instaurata nell'Ordine intero, coltivarono nella loro Chiesa di Montefano la devozione alla Madonna Addolorata ben corrisposti da quella popolazione; in Suo onore ogni cinque anni si svolgevano in paese solenni festeggiamenti straordinari, tra i quali rimase vivo ricordo di quelli svoltisi nel Settembre 1929.

ASCOLI PICENO

STUDIA PICENA - CRISTIANO MARCHEGIANI - DEL CARDINAL CENTINI. VITA, IMMAGINE, RITRATTI E UNA RESTITUZIONE GIOSAFATTESCA: IL BUSTO E LA CAPPELLA ASCOLANA DELL’IMMACOLATA

Sulle orme di quel papa Sisto da cui verosimilmente ottenne in gioventù proficui segni di benevolenza, le ‘profane’ logiche di ceto del cardinalato lo indussero ad intraprendere la costruzione di una cospicua fortuna a beneficio della metamorfosi sociale dei « montagnoli» Centini. Mentre alcuni matrimoni istituivano parentele con le prime Casate Ascolane (i Malaspina, gli Sgariglia, i Quattrocchio), il prelato investiva in tenute ed immobili in « una sistematica campagna d’acquisti in tutto l’Ascolano » (60). I Centini si accaparrarono non poche proprietà di famiglie aristocratiche in difficoltà, finanziariamente dissestate dall’epocale crisi deflagrata col picco inflazionistico del 1618, che di colpo fece crollare le rendite agrarie (61).
(60) BENZONI, Centini, Felice, p. 596. - (61) Don Giuseppe Fabiani (Ascoli nel Cinquecento, II, Ascoli Piceno 1959, p. 322) segnalava di aver « rinvenuto e trascritto non meno di cento contratti, che vanno dal 1613 al 1639 ». Fra gli affari più cospicui, quello dell’acquisto per quasi 18.000 fiorini dei possedimenti dei Guiderocchi a Castagneto e a Spinetoli.

 

IL LAMBELLO IL MONTE E IL LEONE - di Bernardo Carfagna


Quattrocchio Leonardo pag. 230 Paolo pag. 129 Emidio pag. 138 Camillo pag. 231 Vincenzo pag. 231 Saccardi pag. 232
pag. 230 - QUATTROCCHIO LEONARDO - Imparentata con altri ceppi nobili della città come i Cori, i Cauti, i Mucciarelli, i Migliori ed i Ferri. La famiglia Quattrocchio era particolarmente legata alla Cattedrale, ove possedeva il proprio sepolcro del quale, purtroppo, oggi non è rimasta alcuna traccia di lapidi, iscrizioni o testimonianze araldiche. Esso verosimilmente doveva essere nella navata destra, sotto il pavimento di fronte all'attuale ingresso della Cappella del Sacramento, la cui apertura comportò la rimozione dell'altare fatto erigere da Leonardo Quattrocchio nel 1604. I Palazzi dei Quattrocchi - o almeno le costruzioni architettoniche che possono essere indicate come le residenze più prestigiose tra le varie proprietà del casato, erano due: quello dal grande portale bugnato osservabile in Via dei Bonaparte, di fronte al prospetto occidentale del vecchio seminario e quello oggi generalmente indicato come Palazzo Colucci al n. 317 di Corso Mazzini, più opportunamente indicato "Quattrocchi-Colucci" dal Mariotti. La famiglia Quattrocchio si sarebbe estinta in quella dei Colucci che ne avrebbe assunto il cognome e lo stemma. pag. 129 Diversi sarebbero stati i matrimoni siglati tra i nipoti del Cardinale Centini e i contemporanei rappresentanti delle più antiche famiglie nobili della città come, ad esempio, quelli del 1616 tra Giacinto Centini e Girolama Malaspina e del 1618 tra Diana Centini e Paolo Quattrocchio e quello di Felicia Centini (figlia del suddetto Giacinto con Vincenzo Sgariglia nel 1645; tutti contraddistinti da notevoli doti.
pag. 138 Tra i membri della famiglia Cornacchia più in evidenza nella vita politica della città del 1400 è Baldassarre, citato a più riprese dal Fabiani, mentre tra quelli maggiormente dediti alle armi sono da annoverare il console Jacopo, che con il suo pari Emidio Quattrocchio sarebbe stato in prima fila nelle truppe impegnate nel 1458 contro il Duca d'Atri Giosia Acquaviva, al tempo degli scontri tra angioini e aragonesi per la successione al trono di Napoli, ed il capitano Marcantonio vissuto nella prima metà del 1600. pag. 231


STEMMA SULLA LASTRA TOMBALE DI DON VINCENZO QUATTROCCHI MORTO 1581 - CHIESA DELL'ANGELO CUSTODE (demolita nel 1824)


Ipotesi di stemma: d'argento a due fasce di rosso caricate ognuna di due occhi umani al naturale, con la campagna di verde, al monte di tre cime, ordinate in fascia, d'oro.
pag. 232


Famiglia SACCARDI - QUATTROCCHI


Indubitabile l'esito dell'avanzata sociale di un non identificabile "saccardo" addetto alle salmerie negli eserciti medievali, o anche scudiero e aiutante di cavaliere a cavallo, questa famiglia era già estinta quando nel 1766 il Marcucci dava alle stampe il suo Saggio: Sua erede sarebbe stata la famiglia Quattrocchi (estintasi poi a sua volta in quella dei Colucci nel primo '800) presso la quale, come ci dice il Cantalamessa Carboni, esisteva ancora un "codice di varie scritture di Crescenzio, riguardanti affari della Santa Sede con varie Corti estere e moltissime lettere scritte in Italiano, in latino, ed anche molte poesie toscane.

 

SACCARDI-QUATTROCCHI

DELLE ANTICHITA' PICENE DEGLI UOMINI ILLUSTRI - Autore del Saggio delle cose Ascolane alla pag. CCXXXI. e gli antichi eroditi Ascolani ivi citati.

BRUNO SACCARDI DI VENAROTTA. un medico non mediocre , che fioriva nel 1604. ed è comendabile non tanto per se stesso quanto pe' suoi figliuoli, che innamorati delle lettere vi fecero riuscita come vedremo in appresso nei rispettivi loro elogi . Lo dissi di Venarotta , uno dei Castelli dello Stato Ascolano , perchè colà lo trovo indicato in due patenti speditegli dal Pubblico di M. Alto , che si conservano originali presso di me. Una dodici di Settembre del 1604, e l' altra del diciannove dell' istesso anno , sebbene in un' altra precedente del 18 Febbrajo dell' anno medesimo sia detto Ascolano. E , per non dipartirci da ciò , che rilevasi dalle suddette patenti , egli fu eletto Medico della Città di Montalto col peso annesso della Chirurgia , e con onore di Protomedico di tutto il Presidato coll'annuo onorario di ducento cinquanta fiorini fin dal 18 di Febbrajo di detto anno 1604, e dopo esservi stato confermato al Settembre dell' anno isteso, ai diciannove ottenne in benemerenza della sua virtù la cittadinanza di essa Citta' , conforme si rileva dalla patente spedita lo stesso giorno. Da M. Alto è probabile che passasse a M. dell' Olmo , dove si trovava ad esercitare la medicina nel 1611. conferme rilevo da parecchie lettere a lui scritte in essa Terra da Crescenzio suo figlio , che stava in Benevento al servizio d' Ippolito Aldobrandini , che poi fu Cardinale . Ma come si rileva da una di esse lettere scritta li 13. di Agosto di tal anno l'aria di quella Terra poco gli conferiva , e dal figlio era consigliato a rinunziare , o a procurarsi altra condotta , più vicina alfa Patria , se pure non avesse pensato di ritirarsi in Ascoli . Osservo per altro , che nel 1623. passo' a miglior vita da un' epitaffio a lui eretto non so dove dai suoi figliuoli Crescenzio , Giuseppe , e Francesco , dì cui ne ho trovata una copia fra i molti MSS. di Crescenzio , che sì conservano originali presso i Signori Leonardo e Luigi Quattrocchio Patrizi Ascolani , Fratelli dì mia Cognata ; dei quali MSS. mi gioverò moltissimo per rinvenire gli aneddoti dei suoi figli già nominati, che meritano per !a loro dottrina di essere ricordati . Frattanto riferisco una tale iscrizione , che servirà per fornirci anche meglio delle notizie della di lui vita che d'altronde non abbiamo finora sapute.


LAMBELLO IL MONTE E IL LEONE (IL) CARFAGNA BERNARDO AUTORI E STORIA LOCALE


Attraverso una minuziosa ricerca sui reperti araldici ancora esistenti nella citta di Ascoli e nei centri circonvicini, Bernardo Carfagna ripropone con taglio originale storia e personaggi della città medievale e della Marca meridionale. Calate nella realta dei tempi, le testimonianze araldiche si intrecciano con efficacia ed incisivita alle considerazioni dellutore, per prospettare in modo peculiare il divenire della citta e del territorio. Grande rilievo viene dato agli stemmi pertinenti ai personaggi che in importanti realta comunali dei secoli XIV-XV (come Firenze, Bologna, Perugia..) esercitarono cariche di podesta, capitani del popolo, esecutori degli ordinamenti di Giustizia etc. Occasione colta per riportare alla luce, insieme agli stemmi rintracciati negli archivi storici delle citta toccate, anche tanti nomi calati da tempo nell'oblio.

FAMIGLIE CITATE NEL LIBRO:


Aceti, Alaleona, Alati, Alvitreti, Ambrosi, Andreantonelli, Aniballi, Antonelli, Armillei, Arpini, Assalti, Bastoni, Camporini, Capodacqua, Capponi, Carboni, Carfratelli, Cataldi, Cauti, Celestini, Centini, Ciucci, Cori, Cornacchia, Dal Monte, De Angelis, Della Torre, Falconieri, Ferretti, Ferri, Ferrucci, Ficcadenti, Fortunio, Gabrielli, Gilio, Giovannetti, Giovannini, Grassi, Guiderocchi, Guidoni, Iotti, Lenti, Malaspina, Marconi, Marcucci, Mariotti, Martelleschi, Massei, Merli, Miliani, Mucciarelli, Novelli, Odoardi, Pacifici, Pallucci, Parisani, Petrucci, Piccinini, Pizzuti-Bentivoglio, Quattrocchi, Saccardi, Saccoccia, Saladini, Saladini-Pilastri, Santucci, Serianni, Sgariglia, Soderini, Talucci, Tibaldeschi, Trenta, Tuzi, Vannozzi, Vena.

ALBERO GENEALOGICO FAMIGLIA MARCUCCI
IGNAZIO QUATTROCCHIO SPOSA FRANCESCA - 1702

Elenco famiglie nobili e titolate della Regione marchigiana - Archivio di Stato - volume 21:

FRANCESCO ANTONIO MARCUCCI (1717-1798)
“Erudito Prete”, Teologo, Vescovo, Fondatore ed Educatore

Francesco Antonio, nonno di mons. Marcucci, partecipò più assiduamente alla vita politica, ricoprendo anche incarichi militari19. A partire dal 1664 egli fu Anziano della città20, carica più volte assunta fino al 170021. Ricoprì inoltre l’ufficio di Console dal 1674, incarico che successivamente assunse sino al 1706. Fu deputato Mastro di Strade, Paciere, deputato a “rivedere gli Offici della città”, deputato a “rinnovare il bussolo de Signori Consoli” e “de Signori Anziani, e assistere al baccile per numerare li voti”, deputato ad assistere alle fiere e agli “Sgravii de miserabili”, nonché Consigliere dei Cento. Escluso dall’Ordine Consolare, il “Capitano di Cavalli” Francesco Antonio Marcucci sostenne una causa, ricorrendo alla Sacra Consulta, per la reintegrazione della sua famiglia nel più alto grado della nobiltà ascolana, che gli garantiva il privilegio di assumere cariche e magistrature del governo cittadino. Stampato a Roma nel 1709, il documento presenta la struttura tipica della causa e contiene interessanti informazioni sulla famiglia, i membri più eminenti, il patrimonio fondiario, le proprietà rurali e urbane. L’anno successivo, con deliberazione del 1 aprile del 1710, la famiglia Marcucci sarà reintegrata nell’Ordine Consolare e reinserita nel catalogo della nobiltà. Francesco Antonio sposò il 28 Agosto 1665 Dioclezia Soderini, “nobile signora” appartenente ad una delle più ricche famiglie ascolane33 ed ebbe cinque figlioli: Rinaldo, Domenico, Leopoldo (padre di mons. Marcucci), Francesca e Caterina. Dopo aver maritato sua sorella Clelia col “Signor Ignazio Ferrucci”, egli accasò la figliola Francesca con un rampollo della famiglia Quattrocchi (Ignazio) e Caterina col Capitano Gelso Saccocci. Alla morte di Francesco Antonio sopravvennero le liti e le discordie tra i fratelli, che si contendevano l’amministrazione dei beni paterni e materni, la primogenitura e il diritto di ricoprire le cariche pubbliche. Il dono di Monsignor Marcucci a Sant’Emidio del suo anello imperiale. Il 10 marzo 1790 Monsignor Patriarca Marcucci dell’Immacolata Concezione insieme con due signori Canonici Camerlenghi Di Felice Viccei e Don Giuseppe Quattrocchi, come specialmente deputati dal Rev.mo Capitolo Ascolano, presenti anche il Signor Arcidiacono Don Filippo Merli, ed il Signor Canonico Presidente Don Nicola Bastiani, fu stipulato l’Istrumento di cessione sì dell’Anello Imperiale al glorioso Sant’Emidio, che dell’uso perpetuo della Biblioteca grande al Rev.mo Capitolo Ascolano per rogito del Notaio Filippo Nicola Bachetti di Ascoli: l’Istrumento cantava così: “Avanti di me pubblico Notaio infrascritto costituito l’Il.mo e Rev.mo Monsignor Francesco Antonio Marcucci dell’Immacolata Concezione, Patrizio di questa Città di Ascoli, Patriarca di Costantinopoli, e Vescovo di Montalto, ed alla presenza degli infrascritti Testimoni, per contestare la sua sincera e tenera Divozione, e gratitudine, che professa al glorioso Martire Sant’Emidio primo Vescovo, e principal Protettore di questa sua Patria d’Ascoli, fa una perpetua cessione, e donazione al Santo di un suo Anello di Smeraldo grosso in forma quadra col contorno di venti Brillanti stimato in Vienna, e in Roma seicento Scudi Romani; essendo questo quell’Anello, che egli trovandosi in Vienna colla Santità di N. S. Pio Papa VI, nell’Anno 1782 ricevette in regalo nella mattina del 19 Aprile dalla Chiara Memoria dell’Imperatore Giuseppe secondo, ultimamente defonto.

PALAZZO QUATTROCCHIO

PALAZZO COLUCCI (QUATTROCCHI) epoca: XVI - XIX - XX° sec.

Quattrocchi Colucci - Arma: troncato da una fascia di rosso: nel primo d'argento al monte di tre cime di verde, movente dalla fascia, sormontato da una croce gigliata d'oro accompagnata ai lati da quattro occhi al naturale; nel secondo sbarrato d'azzurro e d'oro - patrizi ascolani discententi di Ignazio che fu Governatore di Ascoli nel 1838.

ELENCO PROVVISORIO DELLE FAMIGLIE NOBILI I TITOLATE - REGIONE MARCHIGIANA - LIBRO 21 - ARCHIVIO DI STATO.

La famiglia Colucci deriva dall'antica e nobile famiglia di Ascoli Piceno derivata dalla stirpe de Guarutti i cui diversi rami presero nome da un possedimento o da un patronimico. Il ramo Colucci trasse il nome dal Castello di Coluccio presso San Severino. Nel 1263 questo ramo fu investito da re Manfredi della Contea di S. Angelo in Pantano. Angeluccio fu il capostipite certo. Da esso vennero vari rami che presero cognomi differenti: Nicolai, Angelini e Nicodemi. Gloria di questa stirpe fu il grande santo Nicola da Tolentino il cui padre fu Compagnone figlio di Angeluccio suddetto. Nel 1283 un Niccoluccio fu podestà di Bologna. Giuseppe fu illustre poeta nel sec. XIII, Giulio Cesare fu capitano per la repubblica veneta, Giuseppe fu abate e illustre scrittore delle antichità picene. Nacque il 9 marzo 1752 e morì il 16 marzo 1809. La famiglia ebbe molti suoi membri che ricoprirono alte cariche civiche in patria. La famiglia Colucci fu erede per estinzione della nob. famiglia Quattrocchio di Ascoli e ne assunse il cognome e lo stemma: La fam. Colucci si estinse con Ignazio Colucci Quattrocchi che non avendo prole adottò con l'obbligo di assumerne il cognome e lo stemma il figlio di sua sorella Rosa, sposata al nob. Giovanni Perucci, ossia Vincenzo sposato alla nob. Giuditta dei conti Bernetti da cui discendono gli attuali rappresentanti. Da Vincenzo e Giuditta sono nati: Giovanni, Giuseppina, Luisa e Nicolina. Giovanni ad Ascoli non ha avuto eredi (era celibe). Un ramo di questa famiglia espatriò nel sec. XVII e andò in Basilicata dove tuttora fiorisce. La Consulta araldica riconobbe spettare ai Colucci di Ascoli il titolo di patrizio di Ascoli. In Basilicata la famiglia originaria della terra di lavoro (nella Consulta di S.M.del 1 dic. 1870) - dimora: Roma Alessandria d'Egitto. Il cimiero della famiglia è la piramide cimata dal sole. Il titolo Colucci Quattrocchi è divenuto Perucci Colucci.

 

Le Arti nelle Marche al tempo di Sisto V - Pagina 392 - Paolo Dal Poggetto - 1992

Potendosi rapportare in verticale al Santo protettore (ma questi è già rappresentato con l'attributo consueto delle catene), lascia presumere una precisa, personale volontà di racconto da parte del Quattrocchi. Era forse suo parente quel Vincenzo Quattrocchi, parroco della Chiesa – ancora – di San Leonardo, che venne incarcerato per simonia dal Vescovo Camaiani nel 1567? Inoltre, un famigerato Quattrocchi di nome Atlante, nemico in città degli Alvitreti, dei Cardocchia e dei .. con Giovanni Francesco e Giacomo Alvitreti, fratelli dell'ucciso, «de omnibus et singulis iniuriis, odiis, randoribus, inimicitiis, malevolen- tiis, rixls, discordiis, et vulneribus... et de omicidio ut dicitur commis- so per superdictum d. Atlantem in personam d. Oc/tiuii» (64) La pace stipulata dette al Quattrocchi la possibilità di tornare in Ascoli. L'anno successivo riprese, per non restare inoperoso, la lite col fratello Vincenzo a causa dell'accennata eredità, e di essa si interessò la stessa Curia ...

Rivista di storia della Chiesa in Italia - Pagina 408 - 1954

Atti di Vespasiano Bonamici ... In quest'ultimo caso mi meraviglia come i due ascolani siano sfuggiti ai numerosi storici dell'Inquisizione. Di Curzio, mancando nel breve il cognome o il patronimico, non sono riuscito a sapere chi fosse, ma di Atlante Quattrocchi sono in grado di ricostruire, per il tempo che trascorse in Ascoli, la biografia quasi al completo. Apparteneva a Nobile Casato. Il padre Paolo fece testamento il 27 gennaio 1572 sul punto di morire e da esso si viene a conoscere l'intera sua famiglia, composta della moglie Giovanna Costanza Cori e di sette figli: Marcellina, passata a nozze con Francesco ... Il palazzo è tuttora in piedi in Via Bonaparte. Atti di S. Andreantonelli, 20 febb. e 4 nov. 1579, ce. 61 e 218v. 409 - Prodromi così inquietanti dovevano fatalmente sfociare nel delitto e questo avvenne in persona di Ottavio Alvitreti. Non si conoscono l'anno dell'omicidio e le cause che lo determinarono, quantunque non sia arduo ricostruire il fatto: furono, senza dubbio, le solite beghe tra nobili a dar fuoco alla miccia, cioè all'animo impetuoso e avventato di Atlante. Il 19 maggio 1587 davanti al card. Berneri e al governatore Landriani, i suoi fratelli e congiunti (egli era bandito) facevano pace con Giovanni Francesco e Giacomo Alvitreti, fratelli dell'ucciso, « de omnibus et singulis iniuriis, odiis, rancoribus, ...

ASCOLI NEL CINQUECENTO - di Giuseppe Fabiani

con Giovanni Francesco e Giacomo Alvitreti, fratelli dell'ucciso, «de omnibus et singulis iniuriis, odiis, randoribus, inimicitiis, malevolen- tiis, rixls, discordiis, et vulneribus... et de omicidio ut dicitur commis- so per superdictum d. Atlantem in personam d. Oc/tiuii» (64) La pace stipulata dette al Quattrocchio la possibilità di tornare in Ascoli. L'anno successivo riprese, per non restare inoperoso, la lite col fratello Vincenzo a causa dell'accennata eredità, e di essa si interessò la stessa Curia ... Certo non è un caso, visto che gli altari della 'Scopa' furono commissionati da nobili famiglie ascolane associate alla Confraternita dei Battuti (come gli Alvitreti, gli Odoardi, i Valeriani .

"..del S.Uffizio di Genova "duo iniquitatis filios" Atlante Quattrocchi e un certo Curzio, entrambi ascolani, che già in precedenza avevano avuto a che fare con l'Inquisizione. Papa Clemente VIII in data 16 marzo 1596 scriveva al doge di vigilarli con particolare cura."

Atlante, processato per ben due volte dall'Inquisizione, fu bandito da Roma per ordine di Clemente VIII.
(per saperne di più su Clemente VIII clicca qui "curiosità-romane")

LA COSIDDETTA ERESIA DI ATLANTE E' LEGATA AL LIBRO "DE IURE BELLI" PUBBLICATO NEL 1598 DI ALBERICO GENTILINI PADRE FONDATORE DELLA SCIENZA MODERNA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE.
(per saperne di più sul "De iure belli" di Alberico Gentilini clicca qui "curiosità-romane")

LE CARTE STROZZIANE 1594

12. — Connotati di Atalante Quattrocchi d' Ascoli, bandito. Allegati alla lettera del Cardinale di San Giorgio, ch'è a c. 159. — c. 160. pag. 112 "..appartenevano ai ceti sociali più disparati: vi erano infatti nobili come i Mucciarelli, i Quattrocchi, ecc e figli di artigiani, agricoltori, di montanari. Amalgamare e fondere mentalità e caratteri così diversi doveva essere impresa non certamente agevole."

 

ATLANTE QUATTROCCHI NOTE SU EVENTUALE ERESIA PROTESTANTE E CONSEGUENTE RISARCIMENTO

"Dallo schiavo al robot Lavoro, macchine, automazione"

 

RELAZIONE DI QUANTO SI OPERÒ A FESTEGGIARE LA VENUTA DEL SOMMO PONTEFICE PIO NONO-LA CITTÀ DI ASCOLI-DESCRITTA DA ABB.GAETANO FRASCARELLI-CAVALIERE PORTOGHESE

S. Padre nella sua dimora a Fermo annoverava tra i Cavalieri dell' ordine Gregoriano Pontificio il Conte Emidio De -Angeli» patrizio ascolano. Prima della partenza da Ascoli nominava Commendatore dello stesso Ordine il Cav; Ignazio Colucci - Quattrocchi Gonfaloniere: annoverava fra i Cavalieri Gregoriani, il nobil' Uomo Ascolano Domenico Ferrucci Aziano, morto nel 4 Luglio del corrente Anno 1858 ed onorato di splendido funerale, il Signor Cristoforo Peslau- ser-Malaspina Consultore di Delegazione ed in ultimo il Signor Cav: Luigi Tinti Presidente del Tribunale di Prima-Istanza in Ascoli oriundo di Oliila diocesi Ascolana ,In data del 11 Settembre la stessa Deputazione partecipava al Signor Gonfaloniere Colucci- Quattrocchi, che nella sera del 10 era fatto ad essa l'onore di essere ammessa all' udienza del S. Padre, il quale si degnava gradire i ringraziamenti degli Ascolani, esternando la sua pienissima soddisfazione per quanto fecero nella Circostanza della Sua Venuta nella loro buona e bella Città.

 

Scultura nelle Marche - Pagina 400 - Pietro Zampetti, ? Luciano Arcangeli - 1993


Più sporadici erano gli apporti bolognesi che toccavano tuttavia con l'arrivo della Annunciazione di Guido Reni, dipinta fra il 1628 e il 1629 per la cappella Alvitreti in Santa Maria della Carità, un vertice qualitativo di indubbio prestigio. ... si stabilì definitivamente ad Ascoli a partire dal 1602, impegnandosi in attività architettoniche (presbiterio della chiesa di Santa Maria della Carità) e scultoree (altare per il Duomo commissionato da Antonio Quattrocchio e pulpito per San Francesco).

Dizionario biografico degli Italiani - di Alberto Maria Ghisalberti, Massimiliano Pavan, Istituto della Enciclopedia italiana - 1960

1611, anno in cui fu eseguita "l’Adorazione dei Magi"su commissione della famiglia Quattrocchi, dal pittore Carlo Allegretti (Monteprandone, Ascoli Piceno, fine sec. XVI - inizio sec. XVII). Le sue opere mostrano influssi veneti di fine Cinquecento. Tra le sue opere si segnala: Martirio di S. Bartolomeo (1608, Offida, chiesa di S. Bartolomeo); Adorazione dei Magi (1611, Ascoli, duomo, nel primo altare di destra). Tale opera risulta senz'altro la più pregiata. L’artista infatti ha saggiamente illuminato la parte superiore del quadro con un uso magistrale della luce. È un notturno di classico effetto e meravigliosamente eseguito. Nella chiesa si conserva anche il reliquiario della Sacra Spina, tale reliquiario di forma cilindrica, del 1400, è costituito da strisce di oro ed argento e da un cristallo contenente una S. Spina, come vogliono la tradizione e la credenza popolare (Statuto di Offida libro 1 cap. 3).

Il grande quadro a olio su tela (cm.253x162) rappresentante l’Epifania del Signore conservato nel Museo Diocesano, fu dipinto nel 1611da Carlo Allegretti, artista originario di Monteprandone, che aveva avuto per maestri Pietro Gaia e Girolamo Buratti. Il tema è narrato secondo il gusto veneto che il pittore aveva acquisito durante la sua permanenza a Venezia dove era entrato in contatto con le opere di Leandro e Jacopo Bassano. La composizione è impostata seguendo un taglio diagonale con le masse concentrate in primo piano a sinistra che connota fortemente l'angolo visuale dell’osservatore. La scena principale della Madonna che porge il Bambino all’adorazione dei Magi è anticipata dalle figure, dipinte a mezzo busto, di S. Emidio che introduce alla sacra rappresentazione e di S. Leonardo eponimo del committente e protettore dei carcerati; il primo è rivolto verso gli astanti e appoggia il braccio destro sul libro chiuso, valenza profetica dei precursori, mentre il secondo pone la mano sinistra sul libro aperto della parola e rivelazione dell’Incarnazione, Prophetìa est Evangelium velatum: Evangelium est Prophetìa revelata. In secondo piano sono rappresentati i Magi che si dispongono secondo il modello classico mentre sullo sfondo, dietro la scena principale, si snoda il corteo. Nella parte superiore della tela alcuni angeli sollevano una cortina rossa che rivela teatralmente l’evento aprendo su un paesaggio con un rudere che allude alla caducità della storia e con una rocca in rovina che simboleggia la caducità del potere. L’opera completa esposta in Museo è composta però da tre distinti dipinti, sul pannello centrale è rappresentata l’Epifania e sui due laterali, che originariamente erano collocati ai lati dell'altare, sono dipinte le possenti figure del Profeta Isaia e del Re Davide. Il Re Davide è rappresentato già anziano, con la testa coronata e in abiti militari con uno strumento a corde ai piedi mentre svolge un rotolo su cui è scritto REGES ARABUM ET SABA DONA ADE... PSALM 71, il Profeta Isaia è rappresentato in atteggiamento riflessivo mentre è intento a leggere sul rotolo il verso OMNES DE SABA VENIENT AURUM, ET THUS DEFERENS. Entrambi i versetti alludono alla nascita del Messia e all'omaggio che gli tributeranno i potenti della terra. I tre dipinti provengono dall'altare dedicato all'Epifania che nel 1604 Leonardo Quattrocchio aveva fatto realizzare allo scultore veneto Antonio Giosafatti per la quarta cappella laterale destra della Cattedrale. Sull’epigrafe contenuta nel cartiglio posto sul basamento si legge infatti: LEONARDUS DE QUATTROCCHIS ASCULANUS POSUIT ORNAVIT ATQUE DOTAVIT MDCXI. L’elegante altare in travertino è formato da un basamento contenuto tra due piedritti ornati dallo stemma della famiglia, sui quali poggiano due eleganti colonne tortili antiche di reimpiego in marmo bianco di Carrara con capitelli corinzi, che sorreggono una cornice modanata e che erano state cedute dal Capitolo della Cattedrale a Leonardo Quattrocchio. L'altare fu smontato dalla Cattedrale quando nella nicchia dove era collocato fu realizzato l'ingresso per la nuova Cappella del SS. Sacramento progettata da Agostino Cappelli e portata a termine nel 1838 da Ignazio Cantalamessa. In quell'occasione sia l'altare sia le opere pittoriche che lo decoravano furono restituite alla famiglia Quattrocchi che conservò i dipinti nel loro Palazzo (oggi noto come Colucci) situato sul Corso e rimontò l'altare in posizione scenografica sul muro di fondo del vasto giardino all’italiana dove ancora oggi, anche se in condizioni precarie, è collocato. Una lettera del 30 Maggio 1860 indirizzata al Canonico Luigi Lazzarini testimonia la volontà espressa dal Capitolo della Cattedrale di “avere in Cattedrale li quadri appartenenti all’Altare dell’Epifania di Juspatronatus della famiglia Quattrocchi” ma anche le condizioni poste dagli eredi e cioè che i dipinti fossero collocati sulla parete destra della Cappella del SS. Sacramento di fronte al polittico di Crivelli. Le volontà furono rispettate ma le lapidi commemorative originali vennero sostituite da due tabelle lignee riportanti il testo originale e ne fu posta una terza al centro che attestava il trasferimento dei dipinti in Cattedrale nel 1861 ad opera di Ignazio Colucci e Torquato Quattrocchi, ultimi eredi della nobile famiglia che aveva commissionato le opere d’arte.

DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI MARCHIGIANI Progetto di Giovanni M. Claudi e Liana Catri

Allegretti Carlo (Pittore; n. Monteprandone, Ascoli Piceno, 1554, m. forse Roma 1622). Ritornato, dopo la formazione a Venezia, nelle Marche, eseguì qui molti lavori. Essi sono connotati da un colorito molto acceso. Fra i suoi dipinti rimasti ricordiamo una Adorazione dei Magi e un Martirio di Santa Barbara (1608) nella chiesa di S. Agostino in Offida. Un’altra Adorazione dei Magi (1611), eseguita per la famiglia Quattrocchio, è nel duomo di Ascoli Piceno, opera che si può definire il suo capolavoro.Probabilmente è sua anche una Natività della Vergine nella Galleria Comunale di Ascoli Piceno.

ARMA: d'argento a due fasce di rosso caricate ognuna di due occhi umani al naturale, con la campagna di verde, al monte di tre cime, ordinate in fascia, d'oro. (Frascarelli)

Spadoni Giovanni, Relazione sull’Archivio Colucci e provvedimenti per impedirne la dispersione,
“Atti M. Dep. Stor. p. Marche”, IV Serie 10 (1933, ma 1934)

Nel 1932, come bibliotecario della Mozzi-Borgetti di Macerata, l’a. venne a conoscenza che la nobile famiglia Colucci Quattrocchi di Ascoli Piceno stava cercando di vendere il proprio ricco patrimonio archivistico. Contattata l’unica superstite della dinastia, Nicolina Colucci, l’a. esaminò il prezioso materiale scoprendo venti volumi inediti di ‘Antichità Picene’, quasi tutti in ottimo stato di conservazione. I volumi interessano molte città e terre marchigiane ma nel XV è possibile rintracciare eccezionalmente la ‘Succinta descrizione istorica di Trevi nell’Umbria’ di Alfonso Valenti, del 1765, mentre nel XIX sono presenti notizie sugli uomini illustri di Gubbio e su alcuni marchigiani fioriti a Perugia.

Museo scientifico, letterario ed artistico, ovvero, Scelta raccolta di utili
a cura di Luigi Cicconi, Pier Angelo Fiorentino - 1845

POEMA EPICO

"Il Malaspina non diè risposta che del brando; i colpi furiosi del vanitoso avversario ei parò con quella maestria, con quella calma che dà la coscienza della propria forza; ma quando il vide stanco e trafelato gli rese tai colpi a fiaccargli il mal posto orgoglio. — La tua spada vale il mio rovo? Ebbene a terra la tracotante! E in così dire lo stringe, il persegue, lo gira, il disarma e lo pone vinto a terra.— Renditi, presumente! — e sceso di cavallo gli metteva la punta della spada nel petto — Renditi a chi t'ha vinto ! —Il giudice fa dar nelle trombe, e il cavaliere perdente vien tratto raumiliato e confuso dalla lizza. Vennero quindi un Oliverotto, un Vinci, un Lauri, un Azzolino, un del Rosso e un Alamanno, cui rintuzzaron coll' armi loro un Trebbiani, un Carpani, un Quattrocchi, un de' Sgariglia e un Ferruccio. I colpi cadevano spessi e fieri, ma non micidiali, avvegnachè le ben temprate armature gli rendessero vani; disperato valore spronava i campioni de'due municipii; però gli Ascolani erano perdenti; chè un Azzolino, superiore nel conflitto, caracollando attorno lo steccato, erane stato acclamato vincitore".


Famiglia, Città, Fazione . Gli Sgariglia di Ascoli tra XVI e XVII secolo

Alessandro Ameli Dottorato di ricerca in Storia – Università di Bologna

1. Introduzione
Definisco con il termine “Piceno”, nel contesto di questa ricerca, l?area geografica delimitata a nord dal fiume Chienti, ad est dal mare Adriatico, a sud dal fiume Tronto e ad ovest dai Monti Sibillini. Un territorio corrispondente, grossomodo, alle attuali province di Ascoli Piceno e Fermo, e caratterizzato tra basso medioevo ed inizio dell'età moderna, oltre che da una altissima conflittualità, dall'evoluzione in strutture istituzionali sempre confinate a portata municipale e che, nonostante i tentativi, non portarono mai alla formazione di estese Signorie. E ancora, vista anche la mancanza di rilevanti istituzioni accademiche ad esso legate, è un territorio che presenta, a livello storiografico, una fortissima parcellizzazione delle narrazioni, volte in stragrande maggioranza a cogliere soltanto la dimensione municipale (e municipalistica) di ogni singola città, terra, villa o borgo. Tutto ciò premesso, il Piceno, più che un dato costitutivo, e più ancora che una scala, di questa ricerca rappresenta in ultima analisi l'obiettivo: rintracciare cioè la trama della rete di rapporti che, partendo dalle città maggiori, raggiungono le ville, le montagne, i piccoli borghi del contado innervandoli fittamente. L'idea di fondo è che, dietro il panorama delle città, già contemplato da numerose angolazioni, ci sia una veduta un poco più ampia, (regionale, o sub-regionale se si vuole) che aspetta e, forse, merita di venire ammirata.
Il punto di vista istituzionale sembra non lasciare alcuna “zona grigia”: Ascoli, Fermo, Montalto, Ripatransone, Offida (per citare le realtà maggiori) si presentano allo storico, già al livello di una semplice ricerca bibliografica, come realtà irriducibili a qualsivoglia unità formale. Tra Ascoli e Fermo, in particolare, appare un solco profondissimo, una linea di netta demarcazione tracciata da secoli di separata stratificazione documentaria: due piccoli “Stati nello Stato” e dunque due magistrature, due “eserciti”, due complessi archivistici che si guardano in cagnesco, si escludono, tacciono l'uno dell'altro. Sappiamo però che non esiste soltanto la Storia politico-istituzionale.

2. Dalle risse civili all’Oriente
Un esempio pratico può essere tratto dalla citazione riportata in apertura, il passo della Gerusalemme liberata in cui Torquato Tasso introduce il personaggio di Argillano. Parafrasando molto sommariamente, il poeta ce lo presenta intemperante ma ingegnoso, abile nel combattere quanto audace nel parlare, un guerriero nato ad Ascoli e che, cresciuto in un clima di scontri di fazione, aveva finito per essere esiliato dalla città, diventando bandito e devastandone il contado, per poi partire alla volta di Gerusalemme al fine di riscattare la propria posizione. Questa la presentazione: partendo da questi pochi versi una serie di studiosi ha tentato di identificare la figura storica mascherata dal personaggio di Tasso, principalmente in Argeilando d'Ascoli, Astolfo Guiderocchi o Mariano Parisani. Giuseppe Marinelli, compilando il Dizionario toponomastico ascolano, nella voce relativa ad Argillano (cui, nel centro cittadino di Ascoli Piceno, è intitolata una via), riassumeva le posizioni stratificatesi in seno alla storiografia ascolana nel corso di quattro secoli: in primis l'ipotesi della genesi del personaggio da tale Argeilando, feroce ghibellino spedito alla crociata da Urbano II nel 1096 e scovato in una cronaca medievale da Marcucci, cui fa da corollario un rudimentale apparato di critica letteraria esposto da Appiani nel XVIII secolo. È curioso, tuttavia, che pur citando qualche passo dai canti VIII e IX, quelli cioè in cui il crociato ascolano compare in scena e ne esce, Marinelli rimuova il clou della breve avventura di Argillano, ovvero la sedizione da lui organizzata contro Goffredo di Buglione: “Quando poi esplode la sua ira per la morte di Rinaldo, egli si getta nella lotta e fa strage di Turchi, non risparmiando l'avvenente fanciullo Lesbino, prediletto di Solimano”. In realtà Argillano, dopo essere stato turbato nel sonno dalla furia Aletto con la falsa visione del fantasma di Rinaldo, che affermava di essere stato decapitato da Goffredo, chiama alle armi tutti gli Italiani contro la tirannia dei francesi. Soltanto in seguito, dopo essere stato affrontato e piegato dalla regalità di Goffredo, liberandosi dalle catene cui era stato costretto si rigetta nella mischia facendo strage di saraceni, fino a trovare la morte per mano di Solimano di Nicea. L'altra interpretazione riportata da Marinelli si deve invece a Giuseppe Fabiani, studioso di storia patria la cui opera sul Cinquecento ascolano, con tutti i limiti dell'impostazione storiografica, rimane imprescindibile per chi si accosti, a qualunque livello, alla storia della regione ripercorrendo sulla scorta dei documenti d'archivio la catena d'eventi che seguì la morte di Astolfo Guiderocchi, potente capofazione morto (forse assassinato) a Mentana nel 1552, Fabiani finisce col postulare un incontro tra Aurelia Guiderocchi, la figlia del bandito mandata a sposarsi ad Urbino dalla madre Drusolina, ed il giovane Torquato Tasso, che proprio in quegli anni e in quei luoghi componeva i primi canti della Liberata. In contrasto con l'opinione di alcuni intellettuali fascisti, che in Argillano avevano individuato con malcelato compiacimento il simbolo dell'ascolano guerriero e fazioso del "500", Fabiani cerca per il personaggio di Tasso una genesi più nobile e romantica, cioè dalla malinconia e dal ricordo di una figlia devota che, nelle sue conversazioni mondane col giovane poeta, tentava di far rivivere l'epopea dei suoi avi. Qui Fabiani sembra però non tener conto che Aurelia, a causa dell'avventurosa vita di suo padre, fortemente impegnato nella lotta di fazione, non lo aveva in pratica mai conosciuto,e della sua “volontà di prepotenza",come della sua “intolleranza di umiliazioni e di ritorte”,molto poco poteva raccontare. Del resto, su Astolfo Guiderocchi, Drusolina Ranieri, e soprattutto su Aurelia, che prima di essere “confinata” ad Urbino era stata promessa in sposa a Vincenzo Sgariglia, torneremo anche in seguito. Aggiungiamo come un articolo piuttosto recente pubblicato su una rivista locale e dedicato al personaggio di Tasso, pur attingendo a piene mani proprio dal lavoro di Fabiani, esordisca presentando Argillano al lettore come un “eroe positivo” della Gerusalemme Liberata. Nel giugno del 1601 Sgariglia è a Grottammare, un piccolo castello sulla costa adriatica, appartenente allo stato di Fermo. È in procinto di partire per Venezia, non sappiamo se via mare, da Porto di Fermo, oppure via terra, dopo un lungo inverno passato alla macchia nel contado, a trattare con i banditi per arruolarli nella sua compagnia. I mille scudi necessari all'impresa gli vengono prestati dal padre Vincenzo. Con lui, in questi stessi giorni, troviamo anche il compagno (e sicario) Geronimo di Bellone, che prima di partire rilascia una testimonianza scritta di non aver ucciso Flaminio Ciucci su mandato, ma per suo odio personale nei confronti dell'Anziano. Una dichiarazione molto simile rilasciava ad Ascoli tale Pacchiolo Cece, ritrattando la deposizione resa durante il processo. È possibile che, contestualmente alla partenza di Sgariglia per scampare alla condanna a morte, ci fosse l'intenzione da parte di Vincenzo e Giuseppe di ricorrere in appello, presentando le due testimonianze scritte, magari insieme a qualche lettera di merito che mostrasse come egli avesse “purgato” la sua posizione nella guerra contro il Turco. Ma il suo viaggio era destinato a terminare ben prima dell'oriente: giunto coi suoi soldati nei territori della repubblica di Venezia, lo troviamo ai primi di luglio in viaggio da Lubiana a Zagabria. Qui, per acquartierare la sua compagnia, viene deciso dai colonnelli di spostare in una villa fuori città quella del capitano Fausto Massei, anch'egli ascolano, che a quanto pare non la prende bene. La notte del 4 luglio 1601, giunto da poche ore nella città croata, mentre conversa con Giosuè Nobili da Smerillo de “le cose sue in Ascoli” Sgariglia sente del clamore davanti alla chiesa: corso sul posto vede un proprio soldato, tale Filone, circondato dal capitano Fausto Massei e dai suoi uomini con le armi in pugno. Snuda anch'egli la spada e si getta contro Massei: i due vengono divisi in un primo momento, ma ben presto si liberano e iniziano a duellare. Dopo qualche scambio di colpi, Sgariglia è visto crollare a terra. Le testimonianze, in merito, sono concordi: è stato l'alfiere di Fausto, Guido Guiderocchi, a tirargli da dietro una stoccata al fianco, trapassandolo da parte a parte. In seguito al trambusto, alla richiesta dei superiori di consegnare l'alfiere Guiderocchi, il capitano Massei risponde beffardamente che lo farà, circondato dai suoi soldati schieratisi “con le picche abbassate”. Per timore che gli uomini del capitano Sgariglia, tra i quali si andava spargendo la voce di ciò che era appena successo, prendessero a loro volta le armi per cercare vendetta, Fausto e i suoi dunque furono fatti sloggiare dal quartiere, e invitati a lasciare Zagabria nel più breve tempo possibile. Un mese dopo, il 5 agosto del 1601,ha inizio il processo contro Massei e Guiderocchi, fabbricato presso Michele Cavano, Auditore Generale dell'Esercito Ecclesiastico. Dall'escussione dei testimoni emerge qualcosa sostanzialmente differente da una semplice rissa: una trappola, preparata da Fausto Massei per riuscire ad attirare Sgariglia da solo in mezzo ai propri uomini, e così eliminarlo. Il soldato in cui difesa Sgariglia era accorso, Felice Cardocchia detto Filone di Ascoli, era stato attirato in mezzo agli uomini di Fausto da tale Antonio Quattrocchi, anch'egli ascolano, che gli aveva bruscamente intimato di voler risolvere alcune questioni per via di fatto, richiesta da cui, sulle prime,Filone sembrava essere rimasto sconcertato, avendoci per molti anni “magnato et bevuto assieme”. Alla domanda,posta con insistenza dagli inquirenti,se tra i due Capitani fosse intercorsa “inimicitia” nessuno dei testimoni sa, o vuol rispondere. Alcuni degli Ufficiali ricordano soltanto che,all'ordine dato a Fausto Massei di sgombrare il quartiere il prima possibile, nessuno era riuscito ad ottenere una risposta convincente. Ma è certo che Sgariglia e Fausto avevano già avuto quantomeno l'occasione di entrare in conflitto, essendosi incontrati nel 1595, entrambi capitani dell'esercito del papa, in Ungheria. Non solo: sembra estremamente probabile che i due si fossero incrociati ancor prima, e con le armi in pugno, durante uno di quei cortocircuiti che non di rado accadevano nel “terzo spazio”, quando cioè Vincenzo Sgariglia e i suoi figli, che come abbiamo visto conoscevano assai bene i banditi e i loro covi, venivano assoldati dal governatore di Ascoli proprio per dar la caccia alle masnade che si nascondevano nel contado, una delle quali risulta composta anche da nobili della famiglia Massei, e capeggiata da Fausto. La sentenza, emessa il 6 settembre 1601, condanna Antonio Quattrocchi, Guido Guiderocchi e Fausto Massei alla pena capitale e alla confisca dei beni, ma la compagnia, frattanto, è già lontana da Zagabria. La latitanza di Fausto, in moto perpetuo tra i teatri di guerra e i nascondigli di montagna, tra le ruberie nel contado e le irridenti sortite in città “attraverso le chiaviche”, sarà destinata a durare fino al 1608 quando, bandito ormai da moltissimi anni, è infine snidato, inseguito e catturato dagli uomini del governatore. Le sue ruberie erano costate allo stato ecclesiastico all'incirca 100.000 scudi, e sulla sua testa pendeva una taglia di 3000. Fausto stavolta viene appeso alla forca, e il suo cadavere squartato esposto sulla pubblica piazza. Giuseppe - Nel novembre 1604, scomparso il padre Vincenzo, fu Giuseppe, in qualità di nuovo capofamiglia, a negoziare la pace con i Guiderocchi. Agli ultimi esponenti della casata un tempo così potente e legata alla propria, Torquato e Astolfo III, zio e padre dell'alfiere Guido, Giuseppe prometteva per sé e per i suoi figli di astenersi dalla vendetta, “per amore di Dio e per compiacere all'Illustrissimo signor Cardinale Aldobrandino”. La conditio sine qua non fu che Guido, condannato alla pena capitale tre anni prima ed ancora latitante, si mantenesse per dieci anni a quindici miglia dallo stato di Ascoli: in caso contrario,sarebbe stato legittimo per chiunque ammazzarlo sul posto, “sicome non ci fusse fatto pace”. Proprio con la figlia dell’alfiere Guido, Costanza, termina la casa Guiderocchi e i suoi beni passano a quella del marito, non a caso un Massei, Antonio; (cfr.A, Peslauser Malaspina, Cenni storici…, cit., p. 49). Anche Giuseppe, del resto, come Sgariglia e come il suo assassino, aveva versato in gioventù i suoi tributi alla faida e all'onore, rischiando anche di pagarli molto cari. Dapprima contro gli Alvitreti, che malgrado un de offendendo stipulato non aveva mancato di provocare, facendosi vedere a passeggiare per Ascoli con l'archibugetto sottobraccio. Poi contro Basilio Odoardi, con cui però il diverbio era rimasto al livello di scambi di cortesie verbali. Altri guai li aveva sfiorati, a Venezia, per l'abitudine presa in patria di attraversare le città come girava per il contado, vale a dire armato. Quando però, nel 1627, Giuseppe finì i suoi giorni, molte cose erano cambiate, ed altre stavano cambiando, ad Ascoli e non solo. Pezzi di cadavere addobbavano quotidianamente piazza dell'Arringo, e le torri nobiliari erano, ormai, quasi tutte rase al suolo. I merli sulle botteghe di piazza del Popolo raccontavano di fazioni che non esistevano più da un pezzo. Da un gentilhuomo ecclesiastico non ci si attendeva più che si attardasse a militarizzare la propria casa, il quartiere, le ville del contado, bensì che spendesse i talenti migliori nella gestione del pubblico, dalle podesterie del contado al consiglio cittadino, dove ogni famiglia “del primo grado” custodiva gelosamente il proprio seggio ereditario, e al servizio dell'esercito del papa. Anche il vasto patrimonio andava salvaguardato al meglio dai sequestri, dalle carestie, e dalle scorrerie dei banditi, sparso com'era tra gli Abbruzzi e lo stato di Ascoli, tra il neonato presidato di Montalto e il contado di Fermo. Era stato inoltre, notevolmente, accresciuto da quello di sua moglie Beatrice (Beata),ereditiera ed ultima esponente della nobile famiglia Martelli di Ascoli. Alla morte di Giuseppe alla guida di casa Sgariglia subentrò il figlio primogenito Francesco Maria, indicato nel testamento come erede universale.

3. Faziosi, violenti, ribelli. In sostanza, concludendo qui il discorso su Argillano, potremo forse ricollegarci (mutatis mutandis) alle parole di Scipione Gentili, contemporaneo del Tasso e originario di San Ginesio, un piccolo ed irrequieto castello incluso nello stato di Fermo ma fortemente legato alla vicina rivale, il quale giustificava la scelta del poeta di far nascere questo crociato in riva al Tronto adducendo che “Ascoli sopra tutte le altre città d'Italia, per le civili sedizioni è stata chiara in ogni tempo”. Compilare una lista completa dei tumulti e dei bandi occorsi ad Ascoli nel XVI secolo sarebbe cosa lunga e non so quanto utile. Sembra tuttavia doveroso quantomeno accennare qui ad alcuni episodi nell'ambito dei quali, nelle pagine successive, vedremo muoversi i membri della casa Sgariglia. Ci rifaremo, almeno in parte, al già citato Ascoli nel Cinquecento, sorvolando però sui frequenti appellativi di “ribelli”, “violenti” o “facinorosi” con cui Giuseppe Fabiani condisce la narrazione al fine di stigmatizzare, da buon religioso, chi a tali esecrande lotte intestine prendeva parte. Sono, del resto, epiteti che hanno già tratto in inganno diversi studiosi, i quali attirati dall'ampiezza e dalla solidità della base documentaria (che è e rimane validissima), poco o nulla si sono interrogati sulla natura e dei tumulti ascolani e di coloro che vi partecipavano, avvolgendo ogni fatto di sangue nelle nebbia di una endemica, quasi inevitabile, bellicosità ascolana. La prima parte del secolo XVI è contrassegnata dai continui tentativi della fazione “ghibellina” di Ascoli, capeggiata dai Guiderocchi, di imporre la propria egemonia sulla città, sullo stato, talvolta su tutto il Piceno. Le comunità della regione, grandi e piccole, appaiono spaccate al loro interno in due opposti schieramenti, i quali trovano nei centri maggiori, Ascoli e Fermo, i punti di riferimento e il supporto ai loro propositi, quali che siano: coloro che erano riusciti ad appropriarsi delle magistrature cittadine, ricevevano dalla città in cui dominava la fazione amica le risorse per mantenerne il controllo militare; i fuoriusciti, rifugiati all?interno dei comuni in cui la propria parte era riuscita ad assumere il comando, ricevevano aiuto per rientrare in patria e rovesciarne il governo. Dopo il Pontificato di Paolo III (1534-1549), che per stroncare le continue sommosse insorgenti nei castelli degli stati ascolano e fermano, e le relative risposte armate delle due dominanti, utilizzò un'energia e una fermezza cui forse gli uomini delle fazioni non erano abituati, in molti luoghi del Piceno le lotte intestine appaiono sopite, o addirittura spente, e si spianò ai patriziati la strada di una durevole chiusura cetuale e di un solido dominio sulle magistrature cittadine e sui contadi. Non così ad Ascoli, dove i due partiti, guidati dalle famiglie aristocratiche più in vista, continuano ancora per diversi decenni nei loro rapporti conflittuali. Nel 1551 la morte di Novello Novelli, avvenuta in circostanze controverse, sconvolse ed allarmò l'intera città: ciò perché il maggior indiziato dell'omicidio si rivelò essere Astolfo Guiderocchi II, capo della fazione avversa a quella della vittima, sospettato di aver indotto al tradimento i servi personali del rivale al fine di liberarsene. Fuggito repentinamente da Ascoli, dove la fazione di Novelli arrotava le armi per sistemare i conti, Astolfo si rifugiò nei suoi possedimenti del contado e, chiamato a Roma a giustificarsi, fu riconosciuto colpevole e arrestato. Liberato infine dalle carceri di Tordinona, probabilmente per intercessione di Camillo Orsini parente di sua moglie Drusolina Ranieri, venne condotto nella “prigione dorata” della fortezza di Mentana. Dopo la morte di Novello Novelli e l'esilio di Astolfo, tuttavia, non cessarono di esistere i due partiti, ma ebbe luogo la lunga negoziazione della tregua, stipulata in seguito ad un duplice avvicendamento in capite: da una parte, il ruolo di capofazione fu assunto da Giovan Battista Cauti; dall?altra si ebbe la “co-reggenza” di Drusolina Ranieri e Gaspare Sgariglia. Nel 1553, due anni dopo, le tensioni irrisolte e laboriosamente accantonate in seguito all'omicidio Novelli esplosero. Stavolta a Giambattista Cauti e Gaspare Sgariglia non riuscì di negoziare una pace che soddisfacesse entrambe le parti: i veleni di un vecchio omicidio, la pratica mai abbandonata di introdurre di nascosto cittadini colpiti da bando, e le abili manipolazioni compiute dall'una e dall'altra parte complice anche la scarsa risolutezza del governatore e del bargello (i quali, del resto, si trovavano nelle condizioni di dover arrestare persone che non conoscevano, accusate di malefici avvenuti dieci anni prima), permisero di venire ad una resa dei conti. Cominciarono a circolare voci su soldati spagnoli in arrivo dal Regno di Napoli e pattuglie di banditi nascosti nel contado in attesa di essere chiamati entro le mura, inducendo buona parte del popolo a prendere le armi in supporto dell'una o dell'altra fazione. In luglio, dopo una serie infinita di scaramucce, si giunse infine al confronto militare. In seguito alla battaglia, avvenuta nel cuore della città e che vide tra le sue vittime anche lo stesso Gaspare Sgariglia, da Roma fu inviato un nuovo governatore a ristabilire l?ordine: monsignor Sisto Bezio. Forse la sua gestione del conflitto tra le fazioni a molti non piacque, se è vero che tutte le cronache infieriscono sul prelato con feroce ironia, insistendo particolarmente sul fatto che il suo comportamento irritasse i “primati”. D?altra parte, i motteggi riservatigli per essere un “contadino rivestito senza rispetto per nessuno” ed essersi “fatto mandare il rocchetto” dal cardinal nipote suo protettore, uniti a vaghi accenni di tirannie e abusi, suonano più come una giustificazione preventiva dell'omicidio che vere e proprie accuse contro il prelato. Non così grossolani invece i resoconti dei provvedimenti presi nei confronti degli uomini di entrambe le fazioni in seguito alla battaglia del luglio 1553. Una delle cronache ascolane suggerisce che, dopo il fallimento di una prima mediazione del commissario Camillo.

LA CONGREGAZIONE DI S. FILIPPO NERI AD ASCOLI

 

 

Canonizatio B. Seraphini de Asculo, sive de Monte Granario laici professi Ordinis Minorum Cappuccinorum S. Francisci, 1733

Domina Grandonia de Quatuoroculis Uxor Domini Balthassaris Emiliani Nobilis Asculana annorum 1555. Proc.fol. I017.

 

STEMMARIO ASCOLANO PICENATO - FAMIGLIE NOBILI E RINOMATE


Alaleona - Amiani - Alvitreti - Ambrosi Rosati Sacconi - Bartolucci Godolini - Borgogelli - Bulgarini - Egidi - Emiliani - Euffreducci - Falconi - Fanelli - Fedeli - Felici - Ferrucci - Giorgi Alberti - Girolami Carmignani - Graziani - Guidi - Guerrieri - Laureati - Lazzari - Luciani - Lupidi - Mancini Spinucci Di Milanow - Mancini - Maggiori - Marcatili - Marcucci Marinangeli - Matteucci - Merli - Monsignani Sassatelli (già) Morattini - Morici - Morrone Mozzi - Nardini Saladini - Neroni - Paleotti - Palmaroli - Paoletti Consalvi - Pasqualini - Passari Venturi Gallerani - Passarini o Passerini - Pelagallo - Piccinini - Pongelli Palmucci - Quattrocchi - Quattrocchi Colucci - Raccamadoro - Ranaldi - Recchi - Romani Adami - Saccardi Quattrocchi - Sacconi - Saladini Pilastri - Saladini - Salvadori - Salvati - Savini - Seganti - Sempronio - Serianni - Sgariglia - Sonni - Tesei - Tozzi Condivi - Trevisan e Trevisani - Vermigli - Vinci Gigliucci - Vitali - Vitali Rosati.

 

ASCOLI PICENO - Le origini della città sono avvolte nel mistero ma è abbastanza sicuro che la zona fosse popolata già nell'epoca neo-eneolitica da popolazioni italiche. Secondo una tradizione italica citata nella letteratura antica (Strabone, Plinio, Festo) la città venne fondata da un gruppo di Sabini, che vennero guidati da un picchio, uccello sacro a Marte durante una delle loro migrazioni detta ver sacrum. I Sabini si sarebbero fusi con altre popolazioni autoctone dando origine ai Piceni, di cui Ascoli divenne il centro principale anche grazie alla sua posizione sulla Via Salaria, che collegava il Lazio con le saline della costa adriatica.

FERMO

CRONACHE DELLA CITTA DI FERMO-PUBBLICATE DAL CAV.GAETANO DE MINICIS

Anno Domini 1419, die raercurii XXV januarii et die conversionis Sancti Pauli , dominus noster cum uxore sua et multis equitibus et civibus , forte numero quinquaginta ,et cum uxore magistri Thome solum, et cerlis aliis iuvenibus et mulieribus, que stabant cum domina nostra, cepit iter Mantuam , ubi erat Martinus V. Die . . . mensis eiusdem anni , dominus noster cum sua uxore et omnibus aliis reversus fuit Firmum. Die XXI martii, fuit discopertum tractatum contra dominum nostrum; et videbatur esse tale: quod Niccolaus Petri Transanni, qui erat de Prioribus, una cum quodam vocato Quattrocchi et infrascripti una cum eis , videlicet , Tartia calciolarius,Tomassinus calciolarius, Piagna filius Vagnotii Bernardi Beccarli , fllius Dominici de Sancto Insto , Mattheus Cervellerii , Antonutius Natalis et Marinus Carapelle , iste reversus fuit quia dominus pepercerat sibi pretia (sic).

FERMO -(latino Firmum Picenum) è una città di 37.760 abitanti, posta al centro del territorio del Piceno nelle Marche centro-meridionali, distante circa 6 chilometri dal mare, ed è capoluogo dell'omonima provincia; per effetto della legge statale 11 giugno 2004, n. 147, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 138 del 15 giugno 2004, è infatti capoluogo della provincia di Fermo, quinta provincia della Regione Marche, comprendente 40 comuni dal mar Adriatico ai Monti Sibillini.

DIZIONARIO TOPOGRAFICO DEI COMUNI COMPRESI ENTRO I CONFINI NATURALI D'ITALIA
di Attilio Zuccagni-Orlandini - 1861

Fermo (Marche). Prov. di Ascoli ; eircond. di Fermo ; mand. di Fermo. In cima ad alto colle tra il fiume Tenna e il torrentello Leta-Vivo, non lungi dalla spiaggia marittima, sorge Fermo, che col nome antico di Firmum. salì nei trascorsi tempi ad alto grado di potenza e ricchezza. Mirabilmente pittoresco è l' aspetto di questa città ad una certa distanza, ma le sue vie sono erte e malagevoli. Ove torreggiava la rocca o fortilizio, sorprendente è la veduta che vi si gode. Popol. 18,996.

STEFANO LANCIONI - GLI UBALDINI DI MONTEVICINO E BACIUCCHETO

PREMESSA - Ho pensato di inserire in un'unica monografia le notizie che ho ricavato soprattutto dalla lettura di carte d'archivio sui signori dei castelli di Montevicino , Baciuccheto e della villa di Fagnille (territorio di Apecchio), dato che tutti questi luoghi furono per lungo periodo nelle mani della stessa famiglia feudale (quella degli Ubaldini, conti di Montevicino), che controllava anche il vicino castello di Castiglione S.Bartolo (attuale comune di Piobbico). Nell'agosto 1540 il Duca, con lettera al commissario di Apecchio (ancora la terra era sotto diretta amministrazione ducale), gli conferiva l'incarico di amministrare la giustizia anche agli uomini de' Baldinacci,sia abitanti in città, sia nel contado, con la convinzione che i due avrebbero accettato il fatto : e, ad essere sinceri, il Commissario aveva già emanato precetti (che non consegnassero il grano ad altri) nel mese precedente nei confronti di alcuni lavoratori dei conti Girolamo e Federico
Ubaldini (tali Bartoccio di Benedetto di Quattrocchi di Monte Vicino e Romano di Quattrocchi) . Naturalmente l'amministrazione ducale riguardava solo Apecchio (che a dir il vero presentava una situazione assai complessa, dato che era stata concessa in feudo nel 1514 dal Duca di Urbino ai conti Girolamo e Gentile anche se un terzo delle famiglie erano sottoposte al ramo dei conti di Montevicino) e non si intrometteva nelle questioni interne dei feudi di Baciuccheto, Montevicino o Castiglione, se non chiedendo direttamente al conte: ad esempio il 25 settembre 1540 il Duca di Urbino chiedeva l'arresto di un suo suddito (un tal Ronaldo di Nino di Ugolino), evidentemente rifugiatosi nel territorio di uno di questi tre castelli. La presa di possesso. Il Duca di Urbino, il 24 dicembre 1592, trasmetteva la causa agli Uditori e, nei mesi successivi, vennero esaminati diversi testimoni : alla fine, l’11 agosto 1593 venne stabilito dagli Uditori che i feudi spettavano senza ombra di dubbio ai conti Cesare, Federico e Carlo (figli di Antonio Maria Ubaldini), esclusi gli avversari, come provenienti e discendenti da femmine; dopo la ratifica da parte del Duca (31 agosto 1593), costoro prendevano possesso della giurisdizione il 9 settembre dello stesso anno, ricostituendo nella totalità il feudo. Nella presa di possesso sono elencate, in due distinte occasioni, i magistrati e quasi tutti i capifamiglia di Monte Vicino, tenuti a giurare fedeltà (in quanto membri del Consiglio Generale della comunità) ai nuovi signori. Essi sono: – i priori Agostino de Cascariottis e Vincenzo Betti de Piscaria; – il sindaco Rigo Rinaldi da Piscaria – Mariano(Marinuccio) di Baldo dal Podere; Agostino di Paolino da Caibernacci/Caibernucci; Antonio di Bedino da Cainardi; Marcantonio Marzoli/Marzuoli dalla Pescara; Bartolomeo di Pasquino da Cailibrardi; Paolo Bridocchia dal medesimo luogo; Antonio di Giovanni da Caifabri; Guido di Felice da Maccerini/Mucciarini; Donato di Guerrino; Camillo di Guido Antonio; Ventura di Maria da Caifabri; Ottaviano da Meali; Taviano de Mastini; Paolo di Bartoccio; Antonio di Luca di Pier Paolo; Fabrizio di Basilio; Lelio di Simone; Giovanni di Bedino; Paolino di Matteo; Bortoccio di Mariano di Quattrocchi; Antonio di Matteo de Gualtieri. Le famiglie interessate erano pertanto ventiquattro (e, anche considerando qualche assenza giustificata, si può immaginare che non superassero la trentina) e i toponimi menzionati (Cascariottis, Piscaria/Pescara, Caibernacci/Caibernucci, Cainardi, Cailibrardi, Caifabri, Maccerini/Mucciarini, Meali, a cui possiamo aggiungere Quattrocchi e Gualtieri, forse originariamente patronimici) sono quasi tutte località esistenti ancor oggi (o almeno segnate sulle mappe topografiche riguardanti il comune di Apecchio). Da una rapida consultazione di Istituto Geografico Militare, Carte Topografiche 1: 25.000 Apecchio e S. Angelo in Vado, sono facilmente identificabili (nel territorio apecchiese appartenente un tempo alla Contea di Monte Vicino (ed accatastato a parte dall'Ottocento in poi, il che comprova la stabilità dei confini amminitrativi delle comunità nei secoli e l'obbligatorietà dell'insediamento in certe località di montagna dotate di condizioni favorevoli (e pertanto perduranti inalterate nel corso dei secoli): Cascariottis = Chiscariotti; Piscaria/Pescara = la Pescara; Cainardi = Chinardi; Cailibrardi = Chi Brardi; Caifabri = Ca li Fabbri; Maccerini/Mucciarini = Ca Muciarini; Quattrocchi = C.Quattrocchi; Gualtieri = Chigualtieri. Ignoro invece dove dovevano trovarsi Caibernacci/Bernucci e Meali. INDICE DEI NOMI E’ stato inserito il patronimico solo per gli Ubaldini di Montevicino/Baciuccheto, comprese le femmine (gli appartenenti ad altri rami hanno solo il titolo di competenza). Per le donne entrate per matrimonio nella famiglia Ubaldini di Montevicino/Baciuccheto è stato utilizzato il doppio cognome. Bartoccio di Benedetto di Quattrocchi di Monte Vicino - Bortoccio di Mariano di Quattrocchi - Romano di Quattrocchi .

APECCHIO

Sorge in prossimità del confine della provincia di Pesaro con quella di Perugia, lungo la statale che da Acqualagna, passando per Piobbico, sale al passo di Bocca Serriola (m.730) per poi ridiscendere fino a Città di Castello. È al centro di un ampio territorio comunale che si estende per 103 km2, comprendendo anche la cima del monte Nerone (m.1526), e si presenta arroccato sul terrazzo fluviale formato dalla confluenza del Biscubio con il Menatoio. Di antichissime origini documentate da reperti archeologici e vecchi ruderi, dal sec. XV al 1752 fu dominio dei conti Ubaldini che vi hanno lasciato significativi monumenti e preziose opere d'arte. Del periodo tardo medievale (sec. XV) è il caratteristico ponte a schiena d'asino che con un'unica arcata introduce nel borgo, attraverso il quale si sale fino all'arco quattrocentesco che sottopassa la torre del campanone che segna l'ingresso al 'castello' dal caratteristico impianto trecentesco. L'antico Palazzo Ubaldini (oggi Municipio) è un caratteristico esempio di architettura rinascimentale, soprattutto per il bel cortile porticato risalente al 1515 unitamente alla sottostante neviera. Nei suggestivi sotterranei ha oggi sede l'interessante Museo dei Fossili e Minerali del Monte Nerone. La chiesa parrocchiale di S.Martino occupa l'area dell'antica pieve, sorta a sua volta sulle rovine di un tempio pagano, e conserva al suo interno due pregevoli leoni romanici. Altra chiesa è quella della Madonna della Vita (sec.XVI) dove è conservato un bel Crocefisso ligneo del sec.XIV. Fra le località comprese entro i confini comunali è Serravalle di Carda (m.750), antico piccolo borgo arroccato sulle pendici del monte Nerone, già comunità autonoma e oggi base di partenza per escursioni a piedi o a cavallo per tutta l'area del Nerone. A poca distanza da Apecchio, in frazione Colombara, si trova il noto Mappamondo della pace, interamente costruito in legno, suddiviso internamente in tre piani e idoneo a contenere seicento persone. Per le sue eccezionali dimensioni è inserito nel Guinnes dei primati.

APECCHIO - CA' QUATTROCCHI

Località Cà Quattrocchi - 61042 Apecchio - Pesaro e Urbino (Marche) (Italia) Da Perugia: E45 uscita per Città di Castello, proseguire in direzione Apecchio. Circa 1 km dopo Apecchio voltare a sinistra seguendo le indicazioni per Cà Quattrocchi per 3,5 km.

Il Duca di Urbino, il 24 dicembre 1592, trasmetteva la causa agli Uditori e, nei mesi successivi, vennero esaminati diversi testimoni: alla fine, l’11 agosto 1593 venne stabilito dagli Uditori che i feudi spettavano senza ombra di dubbio ai conti Cesare, Federico e Carlo (figli di Antonio Maria Ubaldini), esclusi gli avversari, come provenienti e discendenti da femmine; dopo la ratifica da parte del Duca (31 agosto 1593), costoro prendevano possesso della giurisdizione il 9 settembre dello stesso anno, ricostituendo nella totalità il feudo. Nella presa di possesso sono elencate, in due distinte occasioni, i magistrati e quasi tutti i capifamiglia di Monte Vicino, tenuti a giurare fedeltà (in quanto membri del Consiglio Generale della comunità) ai nuovi signori. Essi sono: – i priori Agostino de Cascariottis e Vincenzo Betti de Piscaria; – il sindaco Rigo Rinaldi da Piscaria – Mariano (Marinuccio) di Baldo dal Podere; Agostino di Paolino da Caibernacci/Caibernucci; Antonio di Bedino da Cainardi; Marcantonio Marzoli/Marzuoli dalla Pescara; Bartolomeo di
Pasquino da Cailibrardi; Paolo Bridocchia dal medesimo luogo; Antonio di Giovanni da Caifabri; Guido di Felice da Maccerini/Mucciarini; Donato di Guerrino; Camillo di Guido Antonio; Ventura di Maria da Caifabri; Ottaviano da Meali (?); Taviano de Mastini; Paolo di Bartoccio; Antonio di Luca di Pier Paolo; Fabrizio di Basilio; Lelio di Simone; Giovanni di Bedino; Paolino di Matteo; Bortoccio di Mariano di Quattrocchi; Antonio di Matteo de Gualtieri.
Le famiglie interessate erano pertanto ventiquattro (anche considerando qualche assenza giustificata, si può immaginare che non superassero la trentina) e i toponimi menzionati (Cascariottis, Piscaria/Pescara, Caibernacci/Caibernucci, Cainardi, Cailibrardi, Caifabri, Maccerini/Mucciarini, Meali, a cui possiamo aggiungere Quattrocchi e Gualtieri, forse originariamente patronimici) sono quasi tutte località esistenti ancor oggi (o almeno segnate sulla mappe topografiche riguardanti il comune di Apecchio).

N.B.: Da una rapida consultazione di Istituto Geografico Militare, Carte Topografiche 1: 25.000 Apecchio e S. Angelo in Vado, sono facilmente identificabili (nel territorio apecchiese appartenente un tempo alla Contea di Monte Vicino (ed accatastato a parte dall'Ottocento in poi, il che comprova la stabilità dei confini amminitrativi delle comunità nei secoli e l'obbligatorietà dell'insediamento in certe località di montagna dotate di condizioni favorevoli (e pertanto perduranti inalterate nel corso dei secoli): Cascariottis = Chiscariotti; Piscaria/Pescara = la Pescara; Cainardi = Chinardi; Cailibrardi = Chi Brardi; Caifabri = Ca li Fabbri; Maccerini/Mucciarini = Ca Muciarini; Quattrocchi = C.Quattrocchi;
Gualtieri = Chigualtieri. Ignoro invece dove dovevano trovarsi Caibernacci/Bernucci e Meali.


CERRETO

ANTICHITA' PICENE DEL MEDIO E DELL'INFIMO EVO. GIUSEPPE COLUCCI

CERRETO. (frazione del Comune di VENAROTTA - AP). Cento cinquant' anime è tutta la popolazione della Communità di questa villa che è collocata in alto sulla cima di una collina, per lo che, gode d'una buon' aria, ed una vista rispettivamente buona, quanto può essere in una parte in cui non mancano d' intorno altri più alti, e più bassi monti , che nascondono le parti lontane , ma dilettano insieme nella loro disposizione e colla verdura delle piante di cui son ricoperti, le quali sono di luogo, in luogo o interrotte da macigni o da rupi, o abbassate giù nelle valli, o elevate sulle cime più alte delle colline, e nella varietà tramezzate, ne deriva un misto di varietà nelle foglie, nel colore, nella espansione, nella figura, le quali cose non possono non piacere a chi si diletta delle opere maravigliose della natur . L' estensione del territorio è quasi di figura rotonda, e confina col fiume Chiaro a tramontana, e in parte a levante, a mezzogiorno con le campagne di questo territorio non hanno gli orrori di quelle della montagna da me più sopra descritte, né sono cosi sterili e povere. Anzi abbondano di grano, di vino , di olio, di frutta, di pascoli e di tutti i generi, che sono necessarj per l'umano sostentamento, è bene ravvisarsi dall' estimo di esso territorio, che sì è valutato per 93791 scuti. Qui l'industria non ha tutto il merito, poiché a questi commodi influisce 1' ottima natura del terreno, il clima, la positura. Ma non per questo non potrebbe sfoggiarvi con rendere le stesse campagne maggiormente ubertose, se vi s'impiegassero gli agricoltori con maggior diligenza e più studio. E a forza di persuadersi di questa verità che i terreni pessimi con l'arte si fanno buoni, i buoni si migliorano e quelli che son migliorati si possono far ascendere al grado di ottimi. Se le sterili raccolte degl' anni presenti non sono di forte stimolo ai coloni per migliorare l'agricoltura, per industriarsi in generi che possono supplire alla propria indigenza quando i campi non fruttificano come vorrèbbesi ; quando sarà poi che essi lo facciano ? Ed è perciò, che sempre vanno di povertà in miserie, e invano si lamentano della propria condizione, perché potendola migliorare non vogliono impararne le strade. Molti Signori Ascolani scelsero avvedutamente il territorio di questo Castello, per farvi delle fabbriche commode da villeggiarci , profittando della descritta amenità , e salubrità del sito. Ne accennerò qui alcune di quelle che a me sono note, e quelle che hanno Chiesa annessa. Una è del Signor Ignazio Quattrocchi colla Chiesa annessa di S. Venanzio. L' altra del Signor Ignazio Lazzari colla Chiesa dedicafa a S. Niccola. La terza della Signora Marianna Grassi colla Chiesa del titolo di S. Giuseppe » E inoltre la Signora Francesca Silvestri ha presso la sua abitazione la Chiesa di S. Martino, e il Signor Bernardino Utriani la Chiesa di S. Apollo. Tom.. XXI

La famiglia Quattrocchi era imparentata a mons. Marcucci per parte della zia Francesca Marcucci che
aveva sposato Ignazio Quattrocchi.

Monache imparentate a mons. Marcucci nel monastero di Sant’Egidio. Nelle memorie del monastero di sant’Egidio, fuso poi con quello di Sant’Onofrio, si riscontrano monache appartenenti alla famiglia Soderini e alla famiglia Quattrocchi, entrambe imparentate con mons. Francesco Antonio Marcucci. La prima famiglia era legata al Servo di Dio per parte della nonna paterna, Dioclezia Soderini; la seconda famiglia, per parte della zia Francesca Marcucci che aveva sposato Ignazio Quattrocchi. Donna Angela Soderini prese l’abito religioso il 1 gennaio 1665, fece la professione solenne il 7 gennaio 1667 e morì il 4 marzo 1731. Il 16 settembre 1678 entrarono le Donne Geltrude e Maria Maddalena Quattrocchi le quali presero il santo abito monastico il 20 di detto mese; fecero la professione solenne il 9 settembre 1679. In una lettera del 1709 si rileva che Maria Maddalena Quattrocchi era badessa del monastero di sant’Egidio; ella morì il 16 maggio 1746. L’11 settembre 1683, entrarono nel monastero di sant’Egidio Maria Costanza e Maria Nicola Quattrocchi e presero l’ abito il 16 dicembre dello stesso mese. Maria Costanza morì il 25 marzo 1732 e Maria Nicola, all’età di cento anni, l’11 settembre 1758 . L’11 ottobre 1708 entrò Donna Maria Lucrezia Quattrocchi, prese l’abito il 25 dello stesso mese e fece la professione solenne il 15 ottobre 1709; morì il 26 dicembre1762. Il 30 gennaio 1712 entra la Signora Geltrude, figlia del Signor Leonardo Quattrocchi e il 7 febbraio prende l’abito monacale; il 21 febbraio fa la professione con patto che debba stare senza voti per essere quattro di una stessa casa, cioè due zie e due nipoti
Il 12 settembre 1762, nel monastero di Sant’Egidio entrò la signora Lelia Quattrocchi, il 22 dello stesso mese vestì l’abito religioso e il 29 settembre 1776 fece la santa professione; morì il 6 gennaio 1798. Il 21 gennaio 1765 prese l’abito religioso Mariangela Quattrocchi e il 16 febbraio dello stesso anno fece la santa professione; morì il 29 dicembre 1794. Il 15 maggio 1792 vestì l’abito religioso la signora Teresa Quattrocchi, che il 3 giugno dello stesso anno fece la santa Professione. Il 3 novembre 1705 don Giuseppe Quattrocchi pigliò possesso [della chiesa di S. Egidio] alla cappella del detto S. Egidio per beneficio [lasciato alle monache] dal signor Giovanni Paolo Cappetti. Nel monastero di sant’Egidio il 25 novembre 1696 entrò la zia del Servo di Dio, Donna Chiara Cecilia Marcucci, prese l’abito monacale il 29 dello stesso mese e fece la professione solenne il 1 dicembre 1697. Suo padre, Francesco Antonio Marcucci, le aveva dato una dote di 2.300 scudi 150, somma di notevole valore; ella morì l’8 settembre 1731, dopo aver ricevuto i Santi Sacramenti. Don Francesco Antonio Marcucci ebbe un rapporto molto stretto con le monache di Sant’Egidio, predicò varie volte nel loro monastero; nell’aprile del 1756, tenne un corso di 8 giorni (esercizi spirituali) l’anno seguente vi predicò un quaresimale; inoltre, lesse e regestò quindici pergamene a loro indirizzate, come risulta da una sua memoria, conservata nell’Archivio delle Suore Concezioniste. Diventato Vescovo, mons. Francesco Antonio Marcucci volle onorare le monache Benedettine di sant’Egidio con una visita al loro monastero, insieme alle sue religiose dell’Immacolata Concezione. Ottenuto allo scopo, il permesso del Papa Clemente XIV di entrare in clausura, mercoledì 8 Maggio 1771 sette Pie Operaie dell’Immacolata, accompagnate da altre quattro donne, insieme al Fondatore, giunsero al monastero con due carrozze, alle ore 13, e vi si trattennero fino a sera, al suono dell’Ave Maria. Nel 1774, mentre era Vicegerente di Roma, mons. Marcucci ricevette dal papa Clemente XIV l’incarico di delegato apostolico per quietare i monasteri di Santa Maria delle Vergini e di sant’Egidio di Ascoli, entrati in attrito a motivo di una costruzione. Le monache di Santa Maria delle Vergini volevano erigere una sacrestia nella proprietà delle monache di sant’Egidio, fuori della clausura. Queste ultime rifiutarono di dare il permesso perché ciò avrebbe tolto molta luce al loro refettorio. Mons.Marcucci difese i diritti delle monache di sant’Egidio, bloccando la costruzione.

GIMIGLIANO - VENAROTTA

Tra le prime notizie scritte che parlano di Gimigliano come Castello organizzato, possiamo citare l’Atto ufficiale riportato nel Registro di Farfa ma questo non esclude che la villa esistesse già prima. Il documento insinua che Gimigliano nel 1039 era così rilevante se Longino di Azone, con il consenso di Attone abate di S. Angelo, può donarlo al Monastero di Farfa. Questa sovranità farfense durerà fino a verso il 1150 quando, sotto l’impero di Corrado II, verrà restituito al Vescovo di Ascoli Presbiterio. Lo storico Colucci Giuseppe, nelle Antichità Picene così descrive la situazione di Gimigliano nel 1700: Castello che rimane sulle vette di un colle di vivo tufo discosto d’Ascoli meno di tre miglia; e l’aggregato delle case disposto in lungo. Dicono che è appartenuto alla nobile famiglia Migliani di Ascoli. Il nome deriva da germoglio del miglio, infatti, una pianta di miglio forma lo stemma di questa Comunità. Il Castello era ben fortificato dalla natura più che dall’arte; dall’altezza delle rupi che lo guardano da tramontana e da mezzogiorno. Poche mura, da ponente e da levante lo rendevano sicurissimo ma ora non se ne vedono che i soli avanzi dalla parte occidentale con i segni della porta e dalla parte orientale resta l’arco coi suoi cardini. Ha il Castello la propria parrocchia comune per altro con quella di Poggio Ansù dedicata ai SS. Martiri Quirico e Giulitta. Vi sono inoltre due altre Chiese: S. Maria Maddalena del Parroco di S. Leonardo di Ascoli e S. Michele, dell’Abbadia Cerri, che è Juspatronato della nobile famiglia Quattrocchi d’Ascoli. Il territorio è diviso in quattro contrade: Galleggiano, le Canapine, le Palombarette e le Selve.
CHIESA DI SS. QUIRICO E GIULITTA La Chiesa deve avere quindi un’origine antica, il primo documento risale solo al 1300 quando se ne parla insieme alla Chiesa di S. Nicola di Olibra. Era situata entro il Castello con l’ingresso verso occidente, edificata sopra una pietra viva detta volgarmente tufo. SANTUARIO DELL’ADDOLORATA Il Santuario, è sorto sul luogo delle ripetute apparizioni mariane da Aprile a Maggio 1948, accompagnate da fenomeni nel sole, da numerose conversioni e guarigioni.


Gimigliano Storia: Sopra le alture che circondano la città di Ascoli troviamo, verso nord-ovest, appollaiato su un costone di arenaria, il caratteristico ed antico casato di Gimigliano. Il nome deriverebbe dal germoglio di miglio (che campeggia sullo stemma cittadino), oppure, come sostengono alcuni, dalla presenza della famiglia dei Miliani, a cui sarebbe appartenuto il feudo. Delle poche notizie che sono pervenute riguardo al suo passato, le più antiche attestano Gimigliano nella donazione del feudo da parte del longobardo Longino d'Azzone, al monastero di Farfa. Successivamente è certo il possesso di una chiesa di San Savino al monastero di Sant'Angelo Magno di Ascoli datato XII secolo. Nei successivi catasti del XIV secolo si conferma l'appartenenza del luogo ancora al capoluogo piceno, sotto l'amministrazione del podestà di Venarotta. Solo nel XVI secolo il paese verrà dotato di statuti comunali propri: da qui prenderà il via la nobile dinastia dei Galanti, che successivamente lasceranno il borgo per diventare cittadini ascolani. In seguito all'unità d'Italia Gimigliano diventerà frazione del comune di Venarotta. L'abitato, in parte in rovina ed in parte mal restaurato, si affaccia intorno all'unica strada che si innesta dalla porta di accesso, che attraversa passaggi coperti e che introduce alla parte alta dove verosimilmente si trovavano il castello e l'altra porta, attualmente scomparsi. Famoso anche per le presunte apparizioni mariane nel '48, attualmente è più meta di fedeli che di turisti.

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